Memoria di A.F.
Tutti finiamo nello stesso identico modo.
Una cassa aperta in un salotto addobbato a lugubre festa o in una cappella del commiato che non può essere più triste di come è stata progettata, costruita e manutenuta.
Il vestito scelto dai familiari che avvolge un corpo senza anima, senza colori, senza respiro.
Definitivamente freddo: parenti e amici passano, sussurrano qualche preghiera, lasciano lacrime d’ordinanza, chiacchierano fra di loro perché in fondo la morte è un’occasione di incontro e il morto non può sentire più niente.
Quei vestiti si assomigliano tutti: camicia, giacca, cravatta, pantaloni lunghi, scarpe allacciate: nere.
Lugubri abiti di nozze.
Lui, no.
Lui che è morto quando ancora avrebbe potuto dire tanto, lui che non si era mai arreso, lui che aveva sempre la parola giusta per risolvere i problemi, che era abituato a prendersi le sue responsabilità fino in fondo.
Lui ha voluto essere diverso. Si è fatto mettere la camicia della regata che più amava, i pantaloni corti Helly Hansen, le scarpe da vela. Niente calzini in quella bara.
Il suo corpo non era a una lugubre festa di nozze.
Ha voluto che fosse alla partenza di una crociera.
E questa immagine resta come un tatuaggio sulla pupilla: si muore come se si partisse per un giro in barca perché se dopo questa morte non ce ne sono altre, la vita è un viaggio che non si ferma se chi muore ha vissuto.