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Una sorpresa di ferragosto

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
12/11/2007

Un antico palazzo centrale.

Bello come sanno essere belli i palazzi che sono riusciti a restare incompiuti prima di diventare decadenti. Alcuni uffici, le stanze dei proprietari originari sparse, frazionate, disperse: come una raccolta di francobolli dopo un colpo di vento.

Il figlio del fabbricatore di angeli ha un attico. Poche stanze, con molto charme, affacciate sui tetti. Non e’ amato. Non era amato suo padre e nemmeno lui puo’ esserlo. Ma e’ un bell’uomo. Non alto, forse, ma con l’aria mite e gentile di chi non avrebbe voluto essere tanto fortunato. La moglie se l’e’ dovuta cercare lontano.

E’ bella lei. Molto olandese nel suo essere occhi grigi e capelli neri. Alta. Orgogliosa. Un bell’incedere fatto di mostrarsi senza vedere.

Hanno un figlio. Una decina d’anni, portati con tutta l’arroganza di chi sa essere orgoglioso del proprio sangue marchiato. Di chi sfida gli sguardi che conoscono la sua impresentabilita’.

Lei fa la stilista. Dice di fare la stilista. E si accompagna sempre con un’altra donna. Bella anch’essa. Lo stesso sguardo di straniera. Lo stesso modo di portare gli abiti come se fosse nuda e non le importassero gli sguardi, come se non si spogliasse per farsi guardare.

La sorpresa di agosto e’ lui che torna a casa ad un’ora imprevista. E trova lei e l’altra annodate nel talamo. Stupite ma orgogliose come conchiglie. Le butta fuori di casa. Due donne – ancora nude e capaci di restare bellissime – che attraversano il caldo deserto di un pomeriggio a mezzo agosto, rincorse da un nanetto imbestialito e urlante. Loro che sembrano fuggire per pieta’, per non umiliarlo con due sganassoni. Che ne sarebbero capaci e gli farebbero male. Parecchio.

Lo si e’ visto da solo per qualche mese. Solo, ma non senza il figlio insopportabilmente costretto a inventare una nuova arroganza, intagliata sul nuovo marchio che gli era stato donato.

Poi lei e’ tornata. Forse e’ voluta tornare, forse lui l’ha richiamata. Non si sa. Vivono di nuovo insieme. Esattamente come prima, ma quella che era una amica adesso e’ diventata una pelliccia da ostentare dinanzi a tutti, una frequentazione a meta’ fra il trofeo e lo scalpo (del figlio del fabbricatore di angeli).

Stefano, i suoi pensieri

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/11/2007

La cosa più importante per nostra civilità è che noi troviamo i nostri principi affermativi dell’anima e su questa vetta del mondo, bambini al potere, possiamo distruggere le illusioni di una vita negata, e questo sole immenso interiore di fortissimo significato vitale nel volersi bene, nel rispetto sempre maggiore di noi stessi possiamo finalmente godere all’infinito sempre più il piacere. E’ anche facile. La felicità deve stare al posto giusto. Non è un matrimonio. E’ una coscienza di sé. Le grandi potenze concettuali del grande godimento sono piccole cose. L’amore è la certezza che hai di te stesso. Imbroglio significa schiavitù. I cattolici falsi ma etruschi tentano di rubare l’identità della storia del popolo. Noi stiamo convivendo con la nostra preistoria stalinista.

I pensieri di Stefano

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/11/2007

La chiusura dei manicomi ha invaso la nostra quotidianità di pensieri diversi.
Si accumulano nella loro dolcezza in strani percorsi.
Il manicomio di Firenze si chiama San Salvi.
E’ un luogo splendido e terribile.
Un enorme giardino completamente recintato.
Uno spazio concluso, ma infinitamente dilatato.
Amo quel luogo ed amo i pazzi che continuano a percorrerlo.
Lo frequento ed alcuni di loro sono diventati amici, se così posso scrivere.
Soprattutto Stefano.
Stefano scrive libri continuamente.
Li scrive e me li dà, me li porta a casa, in cambio di una cena e di un intercalare di famiglia nella sua vita di vagabondo.
E’ terribilmente lombrosiano: enorme la testa, il viso butterato, lo stomaco prominente dell’alcolizzato cronico, gli odori della strada appiccicati addosso.
Fuma come un dannato.
Ma non beve mai con me.
Non beve a casa mia.
Solo acqua naturale.
Le bambine si sono abituate alla sua presenza ingombrante.
Arriva ad ore improbabili.
Spesso con un quadro sotto il braccio.
Il martello che esce dalla tasca interna della giacca, i chiodi in bocca e dice – sono le sei del mattino – Stanotte, ho dipinto per la camera delle bimbe, posso attaccare il mio quadro?
E diventa un natale sgangherato, anche se è novembre e piove forte, dolcemente.
Altre volte, porta i suoi libri ed inizia a leggere.
Legge, a voce alta, con un bellissimo tono baritonale, parole in libertà collegate da pensieri fissi (gli etruschi, la chiesa, le donne, la fica).
Alla fine, mi chiede sempre: quando mi porti all’università? Voglio leggere i miei libri, insegnare la mia dottrina…

Haka

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
07/11/2007

Ho giocato a lungo a rugby.
Davvero molto tempo.
Ho coperto quasi tutti i ruoli.
Ho cominciato in mischia: ero un bambino grassottello ed il mio peso – finalmente – serviva a qualcosa.
Sono cresciuto e sono diventato un tre quarti magro, un buon secondo centro, un estremo con un bel senso del tempo e capace di giocare nei raggruppamenti veloci.
Una visita più accurata delle altre mi ha fatto smettere.
E’ stato difficile.
Penso spesso all’Haka degli All Black: c’è il sole, c’è il sole: oggi è uno splendido giorno per morire, dicono in una versione meno recente di questa.
Soprattutto penso a quello che ho imparato giocando: pensa, pensa al gioco e resta lucido, anche se il tuo avversario molto più grosso di te sta correndoti incontro e tu vorresti tanto pensare solo ad evitare l’impatto.
Ad allontanare il momento in cui la tua schiena sentirà il suo peso e si piegherà, lasciandoti senza fiato, il viso nascosto nell’erba. 

Vicino al nulla

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
07/11/2007

Mi è capitato di trovarmi davvero molto vicino al nulla.
E’ stato molto tempo fa.
Una giornata di inverno, mare formato, vento teso.
Buia, come sono le giornate di inverno, quando non conoscono il sole e le nubi si accavallano l’una sull’altra.
Ero in barca.
La barca correva, come sa correre in una andatura portante, bassa sull’acqua, alta sull’onda.
Indossavo una cerata scura: non ho mai amato le cerate vivaci. Le trovo stancanti. Lo so, se cadi in mare, ti vedono meglio, ma a me piace andare in barca da solo e se cado in mare comunque nessuno può vedermi.
Quella volta non ero da solo.
Decisi di lasciare il timore per regolare meglio la rotaia del genoa che si era incastrata.
Mentre cercavo di regolare la vela, in equilibrio precario, un’onda più birbante delle altre mi ha fatto cadere in mare.
Ho cercato di riprendere la superficie prima possibile, appena ho tirato fuori la testa dall’acqua, ho subito cercato la barca.
Ma era già lontana.
Vedevo solo l’albero.
E sapevo che nessuno, di conseguenza, mi poteva vedere.
Mi sono guardato intorno.
Il nulla del mare di inverno.
Nemmeno la costa.
Ho provato a nuotare ma non era facile.
La corrente mi portava ancora più al largo.
Mi sono lasciato trascinare, nuotando il minimo per restare più o meno dove ero.
Senza punti di riferimento.
Il tempo ha iniziato a scorrere.
Nella consapevolezza, assoluta, che nessuno mi avrebbe potuto recuperare prima che il freddo facesse il suo mestiere, donandomi il sonno.
Ed ho cominciato a pensare.
Un unico pensiero: si è fermato il tempo, non riesce a passare, qui rischia di durare davvero a lungo.
Si, ho pensato solo che sarebbe durato una infinità di tempo.
Finchè non ho intravisto la barca che stava tornando indietro.
A vela.
Un bordo dietro l’altro.
Come deve essere per coprire il maggior arco possibile di mare.
Si avvicinava.
Mi hanno visto.
Hanno fatto un bordo, e dopo un altro, per passarmi sotto vento in cappa, quasi immobili.
Ho alzato un braccio.
Afferrato una cima.
Mi sono issato a bordo.
Tremante.
Infreddolito.
Un sapore nuovo in bocca.
I miei amici che piangevano: nessuno pensava che sarebbe riuscito a ritrovarmi.
Era passata mezz’ora.
Mezz’ora fatta di nulla.
Mezz’ora accanto al nulla dura davvero molto a lungo.

Natascia

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
05/11/2007

Il figlio ventenne di uno dei miei migliori amici:
"Babbo, ho deciso di darmi al proletariato"
Il padre:
"?"
Il giovanotto:
"Sto con una sciampista, con un nome da sciampista, un indirizzo da sciampista etc."
Il padre:
"Gessica? Cinzia? Viola? Kathia?"
Il ragazzo:
"Natascia, babbo, Natascia: le sciampiste si chiamano tutte Natascia".
E’ finita, naturalmente, dopo pochi giorni.

Il prof. Panatta

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
31/10/2007

Ci sono giornate che iniziano bene ed altre meno bene.
Alcune cominciano tragicamente.
Può dipendere da molte cause: il tempo, la cena del giorno prima, il contenuto del frigorifero.
Può anche succedere che una giornata inizi benissimo e continui non altrettanto.
Una mattina nella quale il buongiorno, il primo buongiorno che sa di presagio per il resto della giornata, viene dal prof. Panatta non comincia benissimo.
Il prof. Panatta è un uomo sulla cinquantina, portati bene ma non troppo: si è sempre appoggiato sul fascino discreto della bellezza evidenziata con nonchalance.
Veniamo dalla stessa scuola ed abbiamo un cursus honorum molto simile. Di conseguenza, non ci siamo mai sopportati troppo.
Ha un talento per le relazioni personali stupefacente, e sa usarlo sia come garbata cortesia, mai troppo deferente, rara dote, sia come arrogante indifferenza.
Anche in questo siamo abbastanza simii.
Gioca a tennis veramente benissimo: un gioco perfetto, molto spumeggiante, d’attacco, divertente.
Sa usare benissimo il tennis per far divertire l’avversario, facendolo sentire un campione: le palle mai troppo lontane, né troppo difficili, ideali per segnare un punto ingenuamente stupefatto.
E’ il genere di giocatore con cui si può uscire dal campo dicendosi: caspita, non sapevo di giocare così bene.
Con questo talento, ha convinto i suoi – ma anche i miei – maestri, veri brocchi malati di sport, dei propri meriti scientifici.
E’ stato un vero piacere intellettuale vederlo giocare e perdere in maniera perfetta finché non ha conquistato la cattedra.
Ed ha avuto l’intelligenza di simulare dei terribili problemi fisici, in modo da poter smettere di perdere senza negarsi.
Ci incontriamo spesso di prima mattina.
Ci salutiamo con il sorriso di chi si conosce da sempre e sa che ci sono dei motivi per cui non si è mai diventati amici.
Ma stamani mi ha fermato.
Con viva e sospetta cordialità.
Lasciandomi con un sapore di portacenere succhiato durante una notte di bagordi: timeo danaos et dona ferentes.
So che presto saprò di cosa ha bisogno e che difficilmente sarò felice di saperlo.

Piazza Savonarola

1 Comment/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
04/10/2007
Piazza Savonarola è una piazza idiota.
Quadrata.
In quello che fu il quartiere ottocentesco degli artisti.
E che oggi è un frinire di banche, studi legali, famiglie borghesi, o più che borghesi.
Piazza Savonarola sono i bimbi che si arrampicano sulla statua del predicatore rompicoglioni.
Immag044Di quel predicatore che bruciava i dipinti del Botticelli e che fu bruciato, alla fine, da una città che non è mai stata fortunata per i santi.
Piazza Savonarola è una realtà a strati.
Anziani con i badanti.
Bambini malati cronici che vengono portati con le loro carrozzelle da un ospedale non lontano.
Domestici, di ogni genere e colore.
Professionisti, più o meno affermati.
Bancari e banchieri.
I figli di quella borghesia che vive qui dalla fine dell’ottocento.
E così via.
Tutti questi strati si ricompongono intorno ad un chiosco.
Dove una sudamericana – improbabile e completamente alcolizzata – mischia mojito dalle sette di sera alle sei del mattino, bevendo birra Heineken in continuazione.
Piazza Savonarola sono le mamme che accompagnano i bambini.
E che si fermano a bere un aperitivo, fingendo che sia troppo forte, affettando di non essere abituate a bere.
E’ la mamma di una splendida bimba del colore del cioccolato.
Una donna coraggiosa.
Che quando si è accorta di essere incinta (è piuttosto robusta e se ne è accorta verso il quarto mese) ha convocato tutti e tre i partner del periodo fertile per dire loro che aspettava un bambino, ma non sapeva chi fosse il padre.
E uno di questi si è convinto di essere riuscito ad avere un figlio.
Le è stato accanto per tutta la maternità.
Fino al giorno in cui la pancia infinitamente sterminata ha prodotto la  bambina cioccolato.
Ed è andato via, direttamente dalla sala parto.
Senza più tornare.

Australia

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
04/10/2007

Ieri mi hanno scritto dall’Australia.
Mi ha scritto uno dei miei migliori amici.
E’ più giovane di me.
Non troppo.
Ma è più giovane.
Lo ricordo poco più che bambino.
In quei momenti in cui pochi anni separano un ragazzo da un uomo.
Ricordo una notte passata a parlare di tutto e di nulla.
Una orrenda bottiglia di grappa alla ruta che finimmo.
E che restituimmo per intero insieme ai nostri succhi gastrici.
E’ una di quelle persone in cui si può avere fiducia.
Incondizionatamente.
Persone rare.
E’ partito per l’Australia.
Ha deciso di emigrare.
Con la cartella di cartone di chi ha bisogno di realizzare i propri sogni.
Forse, nemmeno i suoi sogni.
Ma i sogni di sua moglie: giovane architetto in cerca di impiego, con una concreta prospettiva da desperate housewife.
Lui, in fondo, i suoi sogni li poteva realizzare anche da noi.
E’ un sistemista bravo e preciso.
Mi manca, anche se non ci sentiamo quasi mai.
Mi manca la sua dolce ingenuità.
Ed ammiro il suo coraggio.
Il coraggio di partire lasciando tutto alle spalle.
Per cercare lavoro.
Senza nessuna certezza, se non quella che se le cose vanno male sarà difficile ritrovare quello che si è lasciato.
Mi ha scritto che Sidney è un incrocio fra il centro di NY e l’america anni 50 di Paris Texas.
Quella america che Wenders ricostruisce come se tutto si fosse fermato negli anni 50.
E penso spesso a lui, nella speranza che i suoi sogni si avverino.

Un amico

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
01/10/2007

Lo conosco da molto tempo.
Ma non siamo amici.
E’ una delle persone delle quali si può dire: come mai ci conosciamo da così tanto tempo e non siamo amici?
Di solito c’è sempre una risposta.
Ed è una risposta corretta.
Dura ma corretta.
Ho avuto bisogno di parlargli.
Questioni professionali.
Un concorso.
Ho chiesto come stava.
Solito inizio di cortesia.
Mi ha risposto che stava male.
Mi ha colpito: io dico sempre che sto benissimo.
La verità, se non sto bene, è solo per gli amici.
Sono stato a costretto a chiedergli perché e se potevo essergli utile.
Mi ha allagato di parole.
La fidanzata – ha sessanta anni, ma chiama la compagna fidanzata – lo ha lasciato.
Da un giorno all’altro.
Gli ha inviato una mail dicendo che fra loro era tutto finito.
Non riusciva più a stare con lui.
Era indignato: dopo sette anni, non si può essere lasciati da un messaggio di posta elettronica.
Mi è venuto da rispondere che soprattutto era strano essere lasciati da un messaggio di posta elettronica a sessanta anni.
Ma sono stato educatamente zitto.
Mi ha detto di essere disperato.
Sai, mi dice, una donna alla mia età è importante. Ci si abitua. Ci si sforza di ricostruire una rete di affetti, quando tutto il resto è fallito.
Soprattutto, continua, adesso non ho più voglia di fare nulla. Prima mi piaceva uscire con le mie amiche, sapere che lei mi aspettava lo rendeva divertente. Adesso sono solo un termosifone caldo nel quale infilarmi. E non mi piace nemmeno più.
Ho manifestato tutta la mia comprensione.
Ho detto che lo capivo: non si può tradire senza amare, etc.
Ma ho capito la sua fidanzata.
Aveva assolutamente ragione.
Un messaggio di posta elettronica era più che sufficiente.

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