05/07/2022
C’è qualcosa di terribile e stonato nella morte di Willy Monteiro Duarte.
Tre ragazzi si appartano al cimitero con le loro ragazze, vengono chiamati da un amico che è coinvolto in una rissa, lasciano le ragazze, corrono alle auto, si precipitano sul luogo della rissa, scendono dalle auto in corsa, iniziano a picchiare uno dei ragazzi che cerca di dividere quelli che stavano litigando “sul serio”, in trenta secondi lo uccidono.
E’ facile condannare questi ragazzi: sono dei ragazzacci che vanno a fornicare nei cimiteri, sono dei teppisti che frequentano scuole di combattimento a mani nude, sono privi di qualsiasi cultura e quando devono scegliere un nome per il proprio figlio lo cercano in una serie TV (Aureliano, da Suburra) invece che nella Legenda aura di Fra Iacopo da Varagine, Vescovo di Genova.
E’ altrettanto naturale considerarli con sagace ironia: non hanno le facce di chi risponde a una battuta con lo spirito di Chesterton o di Wodehouse e se sono in carcere per tutta la vita si può anche menarli per il naso con crudele mestiere di giornalista.
Ancora più semplice soffermarsi sulle condizioni sociali che ne hanno segnato l’infanzia e la maturazione: il carattere del cane dipende dai primi anni di vita e maggiori sono le occasioni di socialità con persone, bambini, anziani e altri animali, maggiori saranno le probabilità che il fanciullo divenga un adulto equilibrato. I fratelli Bianchi probabilmente non hanno letto molti libri, non hanno ascoltato neppure il Beethoven di Arancia Meccanica, non hanno avuto modo di essere seguiti da chi aveva a cuore uno sviluppo equilibrato della loro personalità.
Eppure nessuna di queste analisi coglie nel segno e in ciascuna di esse vi è un sottile filo di razzismo, come se, al di là del fatto penalmente rilevante come giudicato dalla Corte di Assise di Frosinone, due animali sfuggiti alla custodia dei loro padroni avessero divorato un innocente fanciullo, perché è questo che viene in mente paragonando le foto dei fratelli Duarte a quelle di Willy Monteiro Duarte. I primi sono i cattivi, somigliano a belve feroci, il secondo era sicuramente buono e ha il viso di un cucciolo teneramente affettuoso.
Il vero fallimento, però, con i fratelli Bianchi, come con il Pitone, il Vizia e il Morto – i tifosi della Fiorentina che lanciarono una molotov contro il treno dei tifosi del Bologna rovinando per sempre la vita a un ragazzino di quattordici anni – è che esistono delle persone nella nostra società per le quali l’aggressività fa parte del quotidiano, che possono scatenare la loro furia incontrollata da un momento all’altro, senza riuscire a trattenersi, e sono persone che potrebbero passare tutta la vita senza che nessuno si accorga di loro se non si imbattessero, a un certo punto, nell’attimo fatale che li sbatte in prima pagina, li fa diventare dei mostri per sempre.
Ma non sono mostri, non è giusto considerarli tali, non lo meritano neppure: il Pitone, il Vizia e il Morto, incontrati con moderazione, nell’officina di un loro amico, erano perfino simpatici.
La cosa che colpisce in uno dei fratelli Bianchi è l’aver pensato al nome di Aureliano ed è facile ironizzare sul tipo di cultura che Suburra evoca e sulle ragioni che consentono a una persona di desiderare che suo figlio si identifichi con quella cultura. Lo si è fatto qualche riga sopra.
Questo argomento però non è generoso sotto almeno due diversi aspetti.
In primo luogo, Aureliano Adami, ad avviso di chi scrive, è un personaggio di tragico spessore: il suo migliore amico, Spadino, è omosessuale e zingaro, lui si innamora di una prostituta extracomunitaria, la sua lotta per la salvaguardia del Lido di Ostia è, forse, più viscerale e sincera di quella di molti ambientalisti.
Ma il vero punto è un altro: Aureliano Adami non esiste, non è un personaggio reale, è la trasposizione che un colto sceneggiatore ha fatto di un delinquente della periferia romana, una trasposizione che non ha niente a che fare con la realtà, perché nella realtà sono pochi gli scrittori che conoscono i delinquenti e ancora meno quelli che li sanno capire come se fossero delinquenti a loro volta.
Pasolini pensava di saperlo fare e la sua storia ha dimostrato che si sbagliava molto.
Se è così, il fratello Bianchi che si appassiona a Suburra e si identifica in uno dei suoi protagonisti, non esprime una sorta di irreparabile adesione a una cultura inarrestabilmente proclive a delinquere, ma cerca uno dei pochi codici di comprensione della realtà che il suo côtè gli permette di utilizzare, dimostra di avere bisogno di pensare non come Aureliano, ma come Aureliano nello sceneggiato, come l’Aureliano che attraverso la serie televisiva diventa comprensibile e accettabile anche per le persone comuni o moderatamente colte.
E questo non è un Rottweiler, è una persona a cui solo una serie ha spiegato di non essere un Rottweiler e una serie è davvero un po’ poco.