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Suona a “morto”

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
02/12/2010

48098_50957_Mario_Drag_2471217_mediumMario Monti occupa il fondo del Corsera di oggi.
Lo occupa con un articolo interessante che propone di risolvere i problemi delle speculazioni sui titoli di Stato attraverso l'emissione in comune di titoli in Euro (E Bonds).
Ma questo è il tema apparente del suo articolo.
Il messaggio vero è fra le righe, quando dice che l'idea non è nuova, risale a Jacques Delors ed è stata ripresa "tra gli altri, autorevolmente, da Giulio Tremonti".
Fra gli altri, autorevolmente, suona come un ramoscello di ulivo al ministro dell'economia con cui l'establishment autorevolmente rappresentato dal Corsera ha avuto più occasioni di attrito.
Suona male per Berlusconi.
Parecchio male.
Soprattutto se la riforma Gelmini slitta al Senato.

Baroni e Vicere (La Gelmini contro gli studenti e Bersani sul tetto)

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
25/11/2010

lavagnaChi scrive ha una certa esperienza di vita accademica.
Ed anche una discreta frequentazione con il potere accademico.
Quel potere che la ministra Gelmini intende abbattere e che dice essere difeso da una protesta strumentalizzata dal ceto baronale.
Può darsi che abbia ragione.
Nel senso che la sua riforma sposta il potere del reclutamento dai Baroni dei settori scientifico – disciplinari ai Vicere delle università.
I due appartengono a due insiemi completamente diversi.
Il Barone di settore scientifico disciplinare è un professore che frequenta i colleghi del suo stesso raggruppamento e che è da loro stimato, vuoi per la preparazione scientifica, o – più probabilmente – per le capacità di magheggio accademico_concorsuale.
Il Vicere di Università è uno che sta tutto il giorno in facoltà, che frequenta i colleghi della sua università e che ha una buona stampa politica locale.
Insomma, il primo è un brigante di settore ma con rinomanza nazionale, il secondo è un manigoldo generalista di rilievo locale.
Difficilmente le due figure coincidono perché sono espressione di attitudini completamente diverse: il primo legge Sole 24 ore e Corsera, il secondo Gazzetta e Tirreno.
La storia del reclutamento dei professori di prima e seconda fascia è questa:
– meccanismo tradizionale: le singole università indicano i posti vacanti, il ministero bandisce un concorso unico nazionale per tutti i posti vacanti, i commissari di concorso sono eletti dall'intero settore scientifico disciplinare, le singole università chiamano gli idonei che sono esattamente lo stesso numero (non di più, questo è il punto) dei posti vacanti, sicché le università sono costrette a chiamare coloro che sono stati considerati idonei dal settore scientifico disciplinare di riferimento e quindi dai Baroni;
– meccanismo Berlinguer: le singole università organizzano concorsi locali, le commissioni sono composte di 5 membri, 4 eletti dal settore scientifico disciplinare, 1 nominato dall'università che bandisce il concorso. In questi concorsi, si organizzano le elezioni in maniera tale che le commissioni siano ritagliate sui candidati che devono vincere e vincono due candidati, uno interno che viene chiamato dall'università che ha bandito il posto ed uno esterno che deve essere chiamato entro due anni da un'altra università;
– meccanismo Gelmini: un unico concorso nazionale, cui può partecipare chiunque e che dichiara l'idoneità. Le università che hanno posti vacanti scelgono un idoneo qualsiasi fra quelli dichiarati tali dal concorso nazionale.
Tutto questo che cosa significa?
Che il sistema tradizionale funzionava a favore dei Baroni, che governavano il settore scientifico disciplinare ed imponevano alle università i loro candidati, mentre il sistema Berlinguer imponeva ai Baroni dei settori scientifici di confrontarsi con i Vicere delle università perché gli uni avevano bisogno degli altri per avere il concorso locale, mentre gli altri avevano bisogno dei primi per organizzare le elezioni della commissione.
Al contrario il meccanismo Gelmini svuota i Baroni di ogni potere (una idoneità che non è a numero chiuso non si negherà a nessuno e non sarà certo un certificato di eccellenza scientifica), e aumenta a dismisura il potere dei Vicere locali che decideranno con una sovranità assoluta chi deve essere chiamato.
Ma fra Baroni e Vicere chi è meglio?
La non scarsa esperienza accademica di chi scrive davvero non saprebbe chi scegliere: per un eterosessuale la scelta fra prenderlo nel culo o in bocca è davvero complicata.

Napolitano ed i decreti legge (A proposito di Veline e Vajasse)

0 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
24/11/2010

carfagna-berlusconiNapolitano ha polemizzato con la presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il Consiglio dei Ministri del 18 novembre 2010 ha approvato un decreto legge per la soluzione dell'emergenza rifiuti in Campania.
Ieri, 23 novembre, non era ancora arrivato sul tavolo del Presidente della Repubblica che ha il compito di firmarlo, con il valore di una emanazione.
Perché?
Cinque giorni per spostare un foglio da Palazzo Chigi al Quirinale sono tanti.
Troppi.
Il problema è che il Consiglio dei Ministri non approva i decreti legge.
Approva una carpetta che dovrebbe contenere il testo del decreto legge, ma che spesso è vuota.
In modo da lasciare al Presidente del Consiglio il compito di riempire la carpetta – di scrivere il decreto legge – prima di inviarlo al Capo dello Stato per l'emanazione.
Questa volta, l'accordo sul decreto legge è stato più faticoso del solito, perché l'oggetto del testo normativo era l'attribuzione dei poteri sugli inceneritori campani, ovvero l'oggetto vero della lotta di potere all'interno del PdL campano fra la Mussolini e la Carfagna.
Una guerra di vajasse che diventa impedimento all'attività di governo.
Comico impedimento.
Prontamente segnalato dal Capo dello Stato, con un intervento che suona più o meno Si sa che approvate solo carpette, ma almeno non fatelo vedere troppo.
Inutile osservare che se i decreti legge sono una torsione della centralità del Parlamento imposta dall'emergenza, ciò dovrebbe essere giustificato dalla collegialità dell'azione di governo.
Che invece viene meno.

Il Lodo senza lode

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
21/10/2010

molto-rumore-per-nullaFini ha accettato l'impostazione della maggioranza sul "quarto" Lodo Alfano.
Repubblica reagisce con due editoriali molto forti.
Carlo Galli sottolinea che l'immunità di un capo del Governo che appare designato dal voto popolare equivale a dotare il voto popolare di una forza taumaturgica che è estranea alle democrazie occidentali.
Alessandro Pace, che è il decano dei costituzionalisti e non ha mai fatto mancare le sue critiche al Primo Ministro, osserva che le leggi di revisione costituzionale sono sottoposte alla Costituzione e che la Costituzione non tollera una immunità dalla giustizia stabilita dopo che la giustizia si è messa in moto.
Come dire: è in astratto ipotizzabile una forma di immunità per il Capo del Governo, ma non è ipotizzabile un Parlamento che sottrae il Presidente del Consiglio ad un processo.
Soprattutto Pace osserva che vi è una certa confusione nell'accomunare sotto la stessa forma di immunità Capo dello Stato e Presidente del Consiglio, data la diversità di funzione delle due cariche ed il diverso valore che hanno nel sistema.
Ha ragione.
Ma, forse, per un motivo leggermente diverso. L'attuale forma di governo prevede che il Capo del Governo duri in carica una legislatura e collega la sua designazione al voto popolare che elegge quella legislatura.
Di conseguenza, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha una immunità che dipende dal voto della stessa maggioranza che ha fiducia in lui e l'immunità diventa una sorta di estensione in campo penale della fiducia parlamentare.
Al contrario, l'attuale forma di governo rende possibile, quasi inevitabile per le logiche dell'alternanza, che il settennato del Presidente della Repubblica inizi in una legislatura e finisca in un'altra dominata da una maggioranza diversa da quella che lo ha eletto.
Sicché mentre per il Capo del Governo l'immunità è il frutto della fiducia, per il Capo dello Stato l'immunità – o meglio la decisione di non concedere l'immunità – può essere facilmente strumentalizzata da una maggioranza parlamentare ostile ad un Presidente della Repubblica eletto in una precedente legislatura da un'altra maggioranza.
Ma queste sono chiacchiere di costituzionalisti possono davvero interessare a qualcuno?
O sono gli estremi riti di Bisanzio mentre fuori dalle mura l'assedio ottomano volge al termine?

Uno sciopero desueto: i giornalisti del Corriere dopo l’età del piombo

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
01/10/2010

Screen shot 2010-10-01 at 8.45.16 AMFerruccio de Bortoli è una persona mite e ragionevole che ha scritto una lettera mite e non irragionevole ai suoi giornalisti.
Chiedendo una cosa forte: di rinunciare ad una serie di prerogative contrattuali e di accettare di vivere in un mondo nuovo in cui il senso dell'informazione è cambiato perché sono cambiati i media che veicolano l'informazione traguardandola verso l'opinione pubblica.
Pare una richiesta assolutamente normale e di ragionevole ovvietà: il contratto dei giornalisti è fermo all'età del piombo, è legato alla tecnologia di Quarto Potere e deve essere aggiornato ad uno scorrere delle notizie che viaggia sempre più sulla rete e che ha un prezzo marginale ben al di sotto della remunerazione dei giornalisti.
Il punto è esattamente questo.
Nel momento in cui la rete consente di prezzare un articolo pochi euro, è ancora possibile tenere fermi i privilegi salariali della categoria dei giornalisti professionisti?
E' economicamente sostenibile?
De Bortoli sostiene, senza dirlo esplicitamente nella sua lettera, di no.
Chiede di rinegoziare, di trovare delle soluzioni che consentano ai giornalisti di svolgere il proprio lavoro in un tessuto economico che non permette alla loro indipendenza di poggiare su desuete garanzie salariali.
Se oramai chiunque scrive in uno spazio aperto al pubblico, in fondo e nella sostanza, è un giornalista e può anche essere molto più bravo di tanti giornalisti professionisti, hanno ancora senso le garanzie di un ordine professionale arroccato in una giurisprudenza che assomiglia a Fort Alamo?
La società dell'informazione oggi è diventata liquida ed in una società liquida i giornalisti dell'età del piombo somigliano ad ancore. Ancore che rischiano di portare a fondo il proprio giornale.
In questa società, l'art. 21 della Costituzione impone di ripensare lo status di giornalista e di elaborare un corpo di principi che valgano per chiunque acceda all'opinione pubblica, senza pensare che un ordine professionale possa essere sufficiente ad assicurare la pluralità dell'informazione e, in fondo, il presupposto della democrazia nel sistema.
I giornalisti del Corriere dovrebbero cominciare a prendere atto che oggi fra Splinder ed il loro giornale non c'è troppa differenza e che se il loro giornale non raccoglie la sfida che Splinder e le altre piattaforme di "net talking" sta lanciando – magari più il vecchio Splinder che non quello di oggi – è destinato a morire per consunzione.
Esattamente come i partiti politici che non si accorgono della novità di un Renzi che sfrutta le tecnologie per parlare direttamente alla società o, in termini più pericolosi e sottili, di una America Talks che si immette ferocemente nella politica del partito repubblicano con lo slogan: Love your country but fear your government, let us take our nation back.
Il mondo cambia e i giornalisti del Corriere potrebbero ricordarsi che nessun uomo della pietra ha scioperato per tornare sugli alberi.

Un palazzo avvelenato

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
28/09/2010

Corte costituzionaleIl Corriere della Sera di oggi tace una notizia importante.
Non si parla di Lele Mora e Fabrizio Corona e della loro relazione intima.
Di quella  parla eccome.
Non poteva uscire con un buco del genere.
Si parla della Corte costituzionale a margine del convegno milanese sull'autonomia e l'indipendenza della magistratura.
Si parla degli inquinamenti generati dalla cd. P3 sul funzionamento del tetto della nostra democrazia.
I fatti sono semplici.
Due giudici della Corte costituzionale hanno partecipato ad una cena assai politica prima di pronunziarsi sulla legittimità costituzionale o meno della legge che concede l'immunità al capo del governo.
Non è stato elegante.
Oggi pare che la Corte costituzionale si sia spaccata sulla possibilità di revocare questi giudici costituzionali.
Non è mai accaduto dal 1956 ad oggi che un giudice della Corte costituzionale sia stato rimosso dal suo incarico.
Può avvenire solo con una decisione della stessa Corte costituzionale "per sopravvenuta incapacità fisica o civile o per gravi mancanze nell'esercizio delle loro funzioni" (art. 3, primo comma, legge cost. 1 del 1948).
Questa decisione deve essere presa a maggioranza dei due terzi dei giudici presenti all'adunanza (art. 7, legge cost. 1 del 1953).
Ma la Corte costituzionale non è stata convocata per giudicare se Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano avessero commesso una grave mancanza nell'esercizio delle loro funzioni cenando con Alfano, Letta e Vizzini nell'imminenza della camera di consiglio sul lodo Alfano.
Non è stata convocata perché mancava la maggioranza per deliberare la loro rimozione ed una camera di consiglio da cui questi giudici fossero usciti confermati avrebbe rafforzato assai la loro posizione all'interno del collegio, che invece era indebolita dallo scandalo che li ha travolti.
Forse, però, la maggioranza non mancava.
I giudici della Corte costituzionale sono 15. Sei hanno votato a favore del Lodo Alfano. E' lecito immaginare che siano gli stessi che avrebbero votato contro la rimozione di Napolitano e Mazzella. Di conseguenza, la maggioranza dei due terzi mancava solo se Napolitano e Mazzella potevano partecipare alla camera di consiglio chiamata a giudicare su di loro e di questo è possibile dubitare. Senza loro due, la fronda interna alla Corte avrebbe contato 4 membri che sono meno di un terzo di un collegio composto da 13 membri.
Il vero problema è chi deve decidere quali giudici della Corte costituzionale vengono convocati in camera di consiglio e come si contano i voti espressi.
E' il Presidente della Corte.
Che però non ha avuto la forza necessaria per affermare l'indipendenza dell'organo da lui presieduto.

Lo dico / Non lo dico / Lo dico (Il presidente Aic Sindaco di Milano?)

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
17/09/2010

OnidaValerio Onida è un costituzionalista di vaglia.
Ha anche il dono di essere una persona simpatica.
E' stato un avvocato molto brillante, un avvocato da clienti importanti.
E' stato giudice della Corte costituzionale, dove ha fedelmente incarnato la Costituzione come relatore di alcuni importanti arrét in punto di immunità parlamentari, rapporto fra Costituzione e ordinamento comunitario, etc.
E' il presidente della Associazione Italiana Costituzionalisti.
Eletto nell'ultima assemblea, con una maggioranza abbastanza importante.
Adesso si candida alle primarie del centro sinistra per partecipare alle elezioni del sindaco di Milano.
Sono elezioni importanti e politicamente molto delicate.
Forse la sua candidatura non è opportuna.
Non è opportuno che un giudice della Corte costituzionale terminato il mandato partecipi attivamente alla vita politica del paese. E' come confessare una appartenenza politica che non può non avere influenzato l'interpretazione della Costituzione che come giudice ha portato avanti.
Nemmeno è opportuno che l'Aic sia coinvolta in una competizione elettorale: l'associazione comprende costituzionalisti di diverso orientamento politico e non può diventare l'associazione dei costituzionalisti di sinistra, perché la Costituzione non deve apparire di sinistra e, forse, non lo è neppure particolarmente.
Però fa riflettere.
L'idea di Onida è che la Costituzione abbia un'anima politica, che le norme costituzionali debbano parlare il linguaggio della politica ed inverare una precisa visione della società civile.
In questa visione ideologica, la scelta di partecipare ad una competizione elettorale può essere compresa perché si partecipa con una precisa visione "costituzionale" della politica.
Ma è una visione che non merita affatto di essere condivisa.
La Costituzione serve a costruire una casa comune e nel momento la si coinvolge in un gioco politico, la si estrania dalla casa comune che dovrebbe costruire, non è più una finestra attraverso cui inquadrare i conflitti politici ma una parte del conflitto politico.
Una Costituzione di questo genere è inevitabilmente una Costituzione a metà.

A casa

2 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
08/09/2010

fini_berlusconiSilvio Berlusconi, come Presidente del Consiglio, e Umberto Bossi, come lìder maximo della Lega, sembra fossero intenzionati a chiedere al Presidente della Repubblica di revocare il Presidente della Camera dei Deputati.
Dal punto di vista della Costituzione, è un gesto che merita qualche osservazione.
In ordine sparso e confuso, perché il gesto di ordinato e chiaro non ha proprio nulla.
Primo, il Presidente della Camera non può essere revocato dalla maggioranza che lo ha eletto: il punto è chiaro nelle prassi parlamentari più recenti, dove è accaduto che due presidenti di Commissione (De Gregorio presidente della Commissione Difesa nella sedicesima legislatura e Villari presidente della commissione bicamerale di vigilanza nella diciassettesima legislatura) abbiano fatto vittoriosamente opposizione alla richiesta di dimissioni avanzata dalla maggioranza che li aveva eletti.
Secondo, il Presidente della Camera non può essere revocato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, perché il Parlamento esercita un potere di indirizzo e controllo sul governo e non è ipotizzabile che colui che è soggetto alla fiducia interferisca sull'organo dal quale dipende e da cui trae la propria legittimazione.
Terzo, il Presidente della Repubblica non è responsabile per gli atti che compie nell'esercizio del suo mandato e che devono essere controfirmati dal ministro competente, sicché il Presidente del Consiglio se vuole che Napolitano revochi Fini deve sottoporre alla firma di Napolitano un decreto di questo contenuto e del quale si deve assumere la responsabilità.
Ma il punto non è questo.
Non è ipotizzabile che Berlusconi e Bossi non si rendano conto della assurdità della loro richiesta, che non a caso hanno diffuso presso l'opinione pubblica ma che non hanno portato al Capo dello Stato.
Se ne rendono conto perfettamente perché sanno tutto quello che devono sapere.
Il punto è che la sfiducia del Presidente della Camera è possibile, con un po' di fantasia costituzionale.
E' possibile perché l'art. 23, reg. Camera prevede che la programmazione dei lavori sia approvata in conferenza dei capigruppo con una maggioranza che conti non meno dei tre quarti dei componenti la Camera, dal che si può sostenere che la conferenza dei capigruppo per essere validamente costituita deve vedere la partecipazione di tanti capigruppo quanti rappresentano i tre quarti dei componenti la Camera.
Se non è stato possibile approvare la programmazione dei lavori, è il Presidente della Camera che la fissa, con una autonomia pressoché sovrana.
Ma se non è stato possibile neppure discutere la programmazione dei lavori, il Presidente della Camera è costretto (art. 26, primo comma, reg. Camera) a fissare l'ordine del giorno in chiusura di seduta per le due sedute successive ed accettare che sull'ordine del giorno si discuta e si voti per alzata di mano.
In altre parole, in assenza della conferenza dei capigruppo, la Camera può decidere del proprio ordine del giorno a maggioranza dei votanti e dare così al Governo il dominio dei lavori parlamentari esautorando completamente il suo Presidente.
Perché Berlusconi e Bossi non seguono questa strada e preferiscono lanciarsi in appelli fantacostituzionali?
Perché non hanno più una maggioranza e, in questo modo, lo confessano.
Burlando se stessi.

L’ammorbidente infeltrito

7 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
02/09/2010

NapolitanoIl mese di agosto è stato un mese strano per i costituzionalisti.
Un mese di coscienze candide.
Perché si deve avere una coscienza candida per sostenere che l'indicazione del candidato premier sulla scheda elettorale è irrilevante.
La polemica è quella sul potere di scioglimento delle Camere, ed è una polemica interessante perché forse la Costituzione non chiarisce affatto se questo potere debba essere inteso come un potere presidenziale ovvero come un potere condiviso con il Presidente del Consiglio dei Ministri.
E' una discussione che ha bisogno di un minimo di onestà intellettuale.
Oggi, non vi è dubbio che il sistema elettorale si basa su coalizioni che indicano il nome del candidato alla carica di premier e che il parlamento sia eletto in virtù di liste bloccate.
Il primo fatto fa sì che il Capo dello Stato sia vincolato dal risultato elettorale nella nomina del premier e che il premier sia dotato di un plusvalore di legittimazione democratica che il sistema precedente non conosceva e neppure era in grado di esprimere.
Il secondo svuota il parlamento di un rapporto diretto con il corpo elettorale perché l'indicazione di voto è incanalata sui candidati scelti dalle segreterie di partito.
Ovvero da parte degli stessi soggetti ai cui accordi è consegnata la scelta del candidato premier.
Tutto questo allontana il governo dal parlamento e lo avvicina al corpo elettorale.
Sicché nel caso di governo uscito dalle urne può parlarsi di Governo del Premier ed il Presidente del Consiglio va ad assomigliare molto a un primo ministro o a un segretario di Stato.
Nel caso di crisi di governo, parlamentari o extraparlamentari, il Presidente della Repubblica ha la facoltà di sciogliere le camere se ritiene che non vi sia spazio per un nuovo governo.
Questo nuovo governo non ha sicuramente la stessa legittimazione del precedente, perché sostituisce chi è stato proclamato premier dalle urne con un soggetto che gode la fiducia di un parlamento il cui rapporto con il corpo elettorale è depotenziato.
Queste sono le coordinate politiche del problema ed un costituzionalista deve essere uno scienziato della politica.
In queste coordinate, dire che il Presidente della Repubblica è titolare del potere di scioglimento delle camere, siginifica affermare che il Capo dello Stato è sostanzialmente arbitro della scelta fra una forma di governo in cui il premier è eletto dal popolo e che si potrebbe chiamare, con una certa imprecisione, Governo del premier ed una forma di governo in cui il premier gode della fiducia del parlamento, e che è una forma di governo parlamentare classica, ma che, nel nostro sistema, è anche debole e si potrebbe chiamare Governo della non sfiducia.
Ovvero significa porre una questione molto grave: la Costituzione nella parte in cui disegna la forma di governo può essere considerata flessibile ed è talmente flessibile da mettere nelle mani del Capo dello Stato la scelta della forma di governo da perseguire.
Questo è molto forte.
E' molto forte perché impone di considerare il Capo dello Stato un qualcosa di diverso da una suprema magitratura costituzionale.
Impone di considerarlo come un attore politico a tutti gli effetti, perché compie una scelta politica e massimamente politica: la scelta del modello di governo di cui la nostra democrazia ha bisogno in un determinato momento storico.
Il che è coerente con la durata in carico del Presidente della Repubblica: sette anni, che comunque lo sganciano dalle maggioranze parlamentari in giuoco nella crisi che è chiamato a gestire o perché non lo hanno eletto o perché non ci saranno al momento della sua eventuale rielezione.
Ovvero impone di considerare la nostra Costituzione flessibile una seconda volta.
Queste notazioni sono ovvie.
Ma sfuggono al dibattito dei costituzionalisti di questi giorni.
Sfuggono perché spesso siamo costretti a strane fedeltà di partito.
Ma non possono sfuggire nel momento in cui Napolitano esterna vaticinando un binario morto per il disegno di legge sul processo breve.
E' la dichiarazione di un attore politico, non della suprema magistratura costituzionale.
Come è evidente dalla prima pagina dell'Unità che la riporta, sotto un'enfasi: "Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare" che fa molto manifesto FGCI dei primi anni settanta.

Di chi ha paura Berlusconi? (Dietrologia futurista)

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
02/08/2010

48098_50957_Mario_Drag_2471217_mediumSdrang_Batang_Gang
Il futurismo fa paura al Cavaliere?
Chi scrive è convinto di no.
Il Cavaliere ha cercato la rottura con Fini e sicuramente non è stata una mossa azzardata.
Berlusconi può essere malato di caudillismo, ma non è per nulla un idiota e non può pensare di poter chiedere le dimissioni del Presidente della Camera o di andare tranquillamente incontro al prodianissimo rischio di una debacle alla Camera dei Deputati.
Sulla sfiducia a Caliendo.
Sul processo breve.
Sulle traduzioni del Lodo Alfano.
Sulla riforma della giustizia.
I timori del Cavaliere vanno ricercati in un'altra direzione.
Nella direzione di Tremonti.
E' lui l'uomo forte del Governo.
E' lui l'unica alternativa a Berlusconi e l'alternativa, per Berlusconi, significa il definitivo allontanamento dalla politica.
Lo ha detto lo stesso Tremonti, con chiarezza, all'indomani della cena di Draghi da Vespa, dicendo – a Repubblica – che non vede governi tecnici, perché non vede tecnici capaci di governare.
Lo ha ripetuto il silenzio di D'Alema su possibili intese con Tremonti e da tempo lo testimonia esplicitamente la linea politica di Casini.
Il Cavaliere si rende perfettamente conto di avere un'età che gli consente di terminare il mandato da Primo Ministro, ma rende improbabile un ulteriore incarico.
Lo strappo con Fini mira ad anticipare le urne: manca un intorno di due anni al termine della Legislatura ed un nuovo mandato elettorale prorogherebbe questo termine di cinque anni.
Fini, in questa logica, è soltanto un paravento mediatico per una resa dei conti molto più complessa.
Serve a consentire a Berlusconi di sciogliersi da un abbraccio sempre più mortale con Tremonti e lo si intende molto bene dalle dichiarazioni di fedeltà padana dell'ex moribondo di Varese.
Questa volta il generale Agosto non è per nulla futurista.
E' molto ancient regime.

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