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Un mercato democratico

8 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
21/04/2009

NapolitanoLa settimana scorsa è stata resa nota una lettera inviata dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio e ai Presidenti dei due rami del Parlamento.
In questa lettera, il Presidente della Repubblica si lamentava dell’abitudine del Governo di utilizzare la conversione dei decreti legge per ottenere la approvazione di testi normativi estranei al contenuto originale del decreto legge.
In pratica, il Governo, attraverso i parlamentari della maggioranza, utilizza le corsie accellerate della conversione dei decreti legge per ottenere la approvazione di disposizioni che non vuole né inserire nel testo originale del decreto legge, per evitare il sindacato del Capo dello Stato, né assoggettare alla procedura normale di esame delle Camere, che viene considerata eccessivamente lunga.
Il vantaggio di questa procedura, inoltre, sta nella inevitabile restrizione del potere del Capo dello Stato di rinvio delle deliberazioni legislative, tradizionalmente molto prudente nel caso di leggi di conversione di decreti legge, a causa delle rigidità imposte dall’art. 77, Cost., che prevede la decadenza ex tunc del decreto legge in caso di mancata conversione entro sessanta giorni.
Sul piano del diritto costituzionale, si potrebbe parlare molto a lungo delle possibili modifiche ai regolamenti parlamentari (alcune proposte da Chimenti sono estremamente interessanti) e delle limitazioni al potere di rinvio di cui il Capo dello Stato dovrebbe essere egualmente titolare, senza subire alcuna compressione anche nel caso di leggi di conversione o convalida.
Ma non interessa questo.
Interessa fermare l’attenzione sull’ultimo comma dell’art. 7, d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, come convertito dalla legge 9 aprile 2009, n. 33.
Prima di tutto, la conversione è caduta nell’ultimo giorno di vigenza del decreto legge: il Capo dello Stato aveva le mani istituzionalmente molto legate nella promulgazione.
Secondo, l’articolo è intitolato "Controlli fiscali", ma non parla solo di controlli fiscali. Anzi, parla di molte altre cose.
Terzo, l’art. 7 del decreto legge contava 234 parole, dopo la conversione_trasfigurazione_maquillage ne conta 1895. Esso, perciò, dà perfetta consistenza alle critiche del Capo dello Stato.
Quarto, l’ultimo comma modifica l’art. 2357, c.c., in punto di limiti al possesso di azioni proprie da parte di società che fanno ricorso al mercato. Le azioni proprie sono le azioni che una società può acquistare anche se compongono il proprio capitale sociale. In questo modo, la società diventa proprietaria di se stessa. O meglio gli azionisti di controllo diventano un po’ più azionisti di controllo in danno degli azionisti di minoranza, che vedono il proprio diritto ai dividendi decurtato di quanto necessario all’acquisto delle azioni proprie. Normalmente, le azioni proprie servono come antidoto a scalate ostili: fanno parte del patrimonio sociale e in caso di una scalata si può immaginare che siano vendute solo se il gruppo di controllo della Società vede di buon occhio il potenziale acquirente.
Con questa modifica dell’art. 2357, c.c., il limite al possesso delle azioni proprie nelle società quotate passa dal 10%, che non è poco, al 20%, che è moltissimo, soprattutto in tempi di corsi borsistici ai minimi storici e di bilanci non altrettanto penalizzati dalla congiuntura.
In altre parole, il Governo, in una disposizione intitolata ai controlli fiscali, ha introdotto una formidabile norma a difesa di coloro che attualmente hanno il controllo di una società quotata.
Con un inevitabile danno alla democraticità del mercato, che invece vorrebbe tutte le società che decidono di aprirsi agli investimenti egualmente contendibili da parte di chiunque ne voglia assumere il controllo.
Anche se questo qualcuno si chiama Murdoch e la società si chiama Mediaset.
Ma queste sono chiacchere da professori di diritto costituzionale.

Tassare i ricchi per dare ai terremotati

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
17/04/2009

berlusindoneL’on. Berlusconi non ha ancora preso una decisione circa l’opportunità di introdurre una tassazione straordinaria sui redditi superiori a 120EuroMigliaia.
Come se in un sistema parlamentare, una decisione del genere spettasse al premier, in barba all’art. 72, quarto comma, Cost. e alle riserve di assemblea.
Però, forse, l’aspetto interessante di questo dibattito non riguarda la forma di governo, il neocesarismo berlusconiano, riguarda il valore della solidarietà all’interno di una cittadinanza unitaria.
Discorso difficile.
Parole difficili.
Far pesare la solidarietà solo sui più ricchi significa attenuare i doveri di solidarietà per i più poveri.
Può essere giusto in una chiave di giustizia sociale non estranea al combinarsi dei valori di cui agli artt. 2, 3 e 53, Cost.
Meno giusto se si osserva che il peso fiscale di un ceto equivale al suo peso politico.
I parlamenti sono nati nel momento in cui i grandi pagatori hanno chiesto di controllare come i denari rivenienti dalle loro tasse venivano spesi dal sovrano.
Non è un caso che questa proposta provenga da ambienti vicini al miliardario governante e che lo stesso miliardario governante stia ben attento a non appoggiarla troppo esplicitamente.
Fra Berlusconi e D’Alema ci sarà sempre una differenza fondamentale: il primo può dire al secondo che gli sta pagando l’auto blu, mentre il secondo non può affermare il contrario.
Una equa distribuzione della solidarietà è un necessario baluardo della democrazia.

Silvio dammi una mano (Vauro)

18 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
16/04/2009

vauro_030708Vauro è stato licenziato (o meglio: sospeso) da Anno Zero.
Troppa satira.
Troppa irriverenza.
Per Vauro è finanziariamente un dramma.
Pintor e la Rossanda hanno sempre detto che lavorare al Manifesto significa essere ricchi di famiglia.
Lui non lo è.
Non resta che rivolgersi a Silvio.
Chiedergli di pensarci.
Di aiutare Vauro.
Con lo stesso tono da palingenesi che abbiamo imparato dai telegiornali di questi giorni.
Un presidente del consiglio che viene chiamato per nome di battesimo e si trasforma in un mezzosangue composto di Padre Pio e il Cincinnato di Tito Livio: Spes unica imperii populi romani.
Anche questa è satira, però.
Naturalmente e purtroppo.

Parentopoli (Una nuova proposta per il reclutamento degli accademici)

4 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
25/03/2009

GelminiLa ministra Gelmini ha lanciato una nuova proposta per il reclutamento degli accademici.
In contemporanea con l’uscita del libro di Nino De Luca (Id., Parentopoli, Marsilio), dedicato agli arcana imperi della università, di cui forse la bozza di disegno di legge governativo è un mezzo di promozione.
L’idea della Ministra è di introdurre una abilitazione nazionale che selezioni le persone idonee a svolgere il compito di ricercatore, professore associato o professore ordinario.
Successivamente le università, nei limiti dei loro bisogni o delle loro capacità economiche, pescheranno dagli idonei le persone da chiamare in ruolo.
La Ministra avrebbe un sostegno bipartisan.
Il sostegno bipartisan è un brutto segnale di per sé: l’università è un mondo dominato da lobby e se un provvedimento in materia di reclutamento ottiene il sostegno di tutti significa che accontenta tutti.
In effetti, questo provvedimento potrebbe accontentare tutti.
In realtà, questa riforma pare solo apparente e pericolosa.
Oggi, il sistema di reclutamento funziona su base locale: le università più virtuose (quelle che hanno un bilancio tale da poter reclutare nuove risorse) mettono a bando un posto.
Hanno diritto a designare un membro della commissione.
Gli altri quattro membri delle commissioni sono scelti con una elezione elettronica da tutti i colleghi del settore scientifico cui appartiene il bando.
Queste elezioni sono il luogo di scambi feroci.
Ci si candida, si telefona ai colleghi, si ottiene il loro voto e si compila una contabilità dei voti.
Naturalmente il gioco dei voti non ha come principale argomento il merito scientifico dei candidati.
E’ una contabilità nella quale il posto di Siena tocca a …. e quello di Palermo a …, con alleanze che nascono nel buio di qualche convegno, cui si partecipa solo allo scopo di verificare l’andamento del mercato.
Questo gioco sparisce.
Nel disegno di legge della Ministra ci si può aspettare che nessuno sia rifiutato alla abilitazione nazionale.
Non costa nulla darla, quindi è idiota negarla.
Capiterà, ma sarà interessante indagare le ragioni con metodo analitico, alla maniera di De Luca.
Il vero gioco avverrà nelle singole università.
L’università di …  saprà che nel 2010 può chiamare tre posti da professore ordinario.
Il Senato accademico dopo lunghe discussioni li assegnerà a Farmacia, Scienze politiche e Lettere moderne.
I singoli consigli di facoltà, dopo lunghe discussioni, premieranno i candidati ritenuti più adatti.
Ovvero quelli che saranno più graditi alla facoltà.
Il che significa che non si diventerà più professori ordinari o associati perché si è ottenuto il consenso della propria comunità scientifica di riferimento.
No.
Lo si diventerà perché la propria facoltà investe in noi.
Così, se il raggruppamento di sociologia a … è debole, l’insigne sociologo sarà sempre scavalcato dal mediocre internazionalista forte di un baronato locale molto più consolidato.
Se doveva essere un passo in avanti, assomiglia molto a due passi indietro.
E non era affatto facile.

Il Parlamento in Gran Consiglio

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
11/03/2009

313380pUwt_wBerlusconi ha proposto di far votare i capo gruppo parlamentari e non i parlamentari.
Appare una proposta radicalmente incostituzionale per le ragioni che Ainis illustra su La Stampa e che può essere motivato dalle ragioni di politique politicienne illustrate da Massimo Franco sul Corsera.
Sicuramente i gruppi parlamentari non hanno nessun potere sui parlamentari che vi aderiscono per effetto dell’art. 67, Cost.
Tuttavia, la proposta può non essere incostituzionale nel momento in cui i singoli parlamentari abbiano il diritto di manifestare il proprio dissenso rispetto al voto del capo gruppo e questo dissenso sia contabilizzato in sede di votazione.
Ma forse il punto non è questo.
Il sistema di rappresentanza politica disegnato dal divieto di mandato imperativo, ovvero dal principio per cui nessun parlamentare può essere vincolato alle istruzioni del partito o del gruppo al quale appartiene, è un sistema nel quale i singoli parlamentari, isolatamente considerati, rappresentano l’intera nazione.
Il voto non riguarda, nella purezza del disegno costituzionale, una lista, ma ha come esito di investire una persona e questa persona ha l’obbligo di rappresentare tanto chi l’ha votata che chi non l’ha votata agendo secondo la propria coscienza.
E’ un sistema che si allontana dalla rappresentanza e si avvicina molto alle teorie sulla rappresentazione e che, dal punto di vista della ingegneria elettorale, si sposa con sistemi maggioritari fondati su collegi uninominali o cerca sistemi proporzionali con voto di preferenza, del genere praticato fino al 1993.
Questo meccanismo assiologico si è pericolosamente incrinato con l’attuale legge elettorale, che da un lato ammanta il premier di un plusvalore di legittimazione democratica che gli è donato dal plebiscito sull’accordo di coalizione, e dall’altro lato allontana gli elettori dagli eletti per mezzo di un diabolico combinarsi di soglie di sbarramento, premi di maggioranza e liste bloccate.
Non è incostituzionale l’idea di far votare i capi gruppo.
Con alcuni accorgimenti potrebbe anche – forse – essere praticabile.
E’ incostituzionale il movimento ordinamentale che allontana il corpo elettorale dal Parlamento.
Lo stesso movimento che, in altri tempi, portò il Gran Consiglio a prendere il posto della Camera dei deputati.
Tempi, si dice, meno allegri.
Si dice.

Anche Beppino ha rotto i coglioni

5 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/03/2009

Immagine 1Anche Beppino Englaro ha rotto i coglioni.
Ma non è colpa sua, questa volta.
E’ colpa di chi lo tira per la giacchetta.
Il Consiglio comunale di Firenze deciderà questo pomeriggio se conferirgli la cittadinanza onoraria.
Come a Saviano, Arafat, la Betancourt e non pochi altri, compreso Rigoni Stern e Kofi Annan.
Firenze vive una battaglia politica molto delicata.
Una battaglia tutta interna al centro sinistra.
Una battaglia di antiche consorterie che è riuscita a conquistare l’attenzione del Time.
In questa battaglia, una consorteria infila Englaro.
Per far vedere che il candidato Renzi non ha la forza di opporsi ai desiderata ecclesiastici.
Che puzza di sacrestia e di Opus Dei.
La signora Englaro, però, non merita questo.
Merita un po’ di silenzio.
Come tutte le morti.
Un po’ di quiete.
Non merita di essere cacciata a forza in questi giochi di potere.
Un po’ tristi, un po’ squallidi, un po’ schifosi.
Il principio di laicità dello Stato, in fondo, è anche questo.
Un minimo di rispetto per una morte che, comunque, ha il diritto fondamentale e inalienabile di ogni morte.
Il diritto all’oblio.

Sciopero

12 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
26/02/2009

quartostatoLo sciopero è un diritto inviolabile.
Sicuramente.
Il governo Berlusconi sta mettendo a punto un disegno di legge delega che ne dovrebbe limitare l’esercizio nel settore dei trasporti.
Nulla di strano.
L’esercizio del diritto di sciopere può (forse, deve) essere oggetto di bilanciamento con altre libertà egualmente inviolabili, la cui consistenza può essere limitata da scioperi scriteriati.
Il settore dei trasporti è particolarmente sensibile a questo bilanciamento: il diritto di sciopero dei lavoratori, infatti, pregiudica la libertà di circolazione di tutti gli altri cittadini.
L’uso della delegazione legislativa è frequente e quasi naturale in ambiti normativi che si segnalano per la complessità della sintesi politica necessaria a disciplinarli, complessità che ha bisogno di una riflessione pacata, lontana dalla confusa stagnazione delle aule parlamentari.
Il vero problema, ed è un problema politico, riguarda la consistenza della riforma proposta che può limitare grandemente l’uso del diritto di sciopero come strumento di libertà, consegnandola a decisioni plebiscitarie delle rappresentanze dei lavoratori.
Difatti, se lo sciopero può essere deciso solo da un referendum fra i lavoratori o da una rappresentanza sindacale che conta più della metà dei lavoratori del settore, lo sciopero diventa uno strumento della maggioranza.
Uno strumento plebiscitario nelle mani di coloro che sanno ingabbiare il consenso dei lavoratori.
Perde il suo spirito ottocentesco e anarchico.
Il suo valore di meccanismo di difesa dei più deboli.
Il vero problema, ed è un problema sociale, è che lo sciopero non è più considerato uno strumento legittimo di lotta dei lavoratori.
Non può più esserlo perché molte volte se ne è abusato.
Se ne abusa quando non è possibile sapere se i treni garantiti saranno garantiti davvero, o quando ci si trova a vagabondare come ciechi in aereoporto alla ricerca di una qualche informazione che ci dia la speranza di tornare a casa.
Se ne abusa quando – e capita spesso – lo sciopero è attentamente utilizzato per paralizzare un servizio con il minimo danno, imponendo lo sciopero a un numero di lavoratori – quelli più giovani, quelli che non possono dire di no – appena sufficente a bloccare il servizio e a garantire agli altri una giornata di stipendio per sfogliare il giornale o fare la spesa o imbottirsi di colazioni.
In questo modo, il governo Berlusconi può legittimamente inventare gli scioperi virtuali.
Perché lo sciopero è già virtuale.
Lo è diventato quando si è trasformato da strumento di lotta per l’affermazione dei diritti dei lavoratori in occasione di furberie.
Come gran parte delle libertà sindacali.

Guelfo non sono né ghibellin mi appello (La fine del Partito Democratico a Firenze)

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
16/02/2009

MicheleVenturaLe ultime vicende del Partito Democratico a Firenze non sono affatto allegre.
Un referendum popolare ha messo seriamente in discussione una singolare tramvia.
Un assessore ha indossato la stella dello Sceriffo di ferro di Salkow ed ha intrapreso una battaglia contro i lavavetri, che, peraltro, ha vinto.
Sono apparse delle intercettazioni telefoniche che hanno seriamente minato la credibilità sia dello Sceriffo di ferro che della sua giunta.
Le primarie, le cui regole sono cambiate in corso d’opera, hanno mostrato una ridda di candidati, in cui Veltroni sponsorizzava Pistelli, Bersani promuoveva Ventura, la Lastri era con la Finocchiaro.
Il Sindaco Domenici ha rifiutato di rinnovare la tessera del Partito Democratico dopo essersi incatenato in un garage e poi ha chiesto di commissariare il proprio partito.
Ha vinto Renzi, che non era con nessuno e ha fatto una campagna elettorale molto americana.
La conseguenza logica sarebbe che Renzi non deve nulla a nessuno.
E’ un candidato sganciato dalle logiche di partito e questo in una società liquidamente antipolitica dovrebbe essere quasi un valore.
Forse, non è così.
Il Corriere Fiorentino – edizione locale del Corsera – di ieri portava un articolo sul candidato sindaco del centro destra.
Preannunciava un interesse per Giovanni Galli, antica bandiera della Fiorentina.
Il vero candidato del centro destra, però, pare, così dicono gli informati, sia il Marchese Frescobaldi.
Personalità mediaticamente molto adatta a fare il pieno dei voti.
A questo punto, ci si può domandare perché non sia ancora uscito sui giornali.
La risposta potrebbe essere semplice e coinvolgere l’attendibilità di Renzi come uomo al di sopra dei giochi di partito.
Senz’altro, il centro destra ha atteso l’esito delle primarie del centro sinistra per uscire con il suo candidato.
Senz’altro, Firenze è una città che nei prossimi anni vedrà una pioggia di cemento e denari (Castello, la tramvia, la manufattura tabacchi, i sottoattraversamenti dell’alta velocità e le nuove infrastrutture ferroviarie).
Senz’altro, in questi investimenti, il centro destra fiorentino, quello che conta: Dennis Verdini, non l’onesta distanza di Mario Razzanelli, non è stato all’opposizione.
L’articolo su Galli di ieri, in realtà, era un articolo su Frescobaldi, nel quale si leggeva: se il candidato del centro sinistra avesse la forza di rompere gli equilibri di potere che hanno saldato gli ultimi dieci anni, noi abbiamo le persone giuste per vincere una battaglia che vi ha logorato.
Adesso, si vedrà se Renzi è davvero sganciato dalle consorterie che guidano la città.
Lo si vedrà dallo spessore del candidato del centro destra.
E se questa non è la fine del Partito Democratico a Firenze ci assomiglia parecchio.

Un post da costituzionalista

15 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/02/2009

NapolitanoAvrei dovuto scrivere un post da costituzionalista.
Lo avrei dovuto scrivere venerdì.
Avrei dovuto censurare l’uso del potere di messaggio di Napolitano.
Avrei dovuto scrivere che il Capo dello Stato non può interferire con le attribuzioni del Consiglio dei Ministri, intervenendo su un affare al suo ordine del giorno prima che lo stesso gli sia sottoposto alla firma.
Avrei anche dovuto scrivere che una interferenza di questo genere, che costituisce una grave alterazione del sistema di equilibri previsto dalla nostra Costituzione filosovietica, mi pare davvero poca cosa rispetto alla interferenza della politica con la vicenda Englaro.
Che l’attentato alla Costituzione del Presidente della Repubblica, mi sembra molto meno grave di una legge o di un atto avente forza di legge che pongono nel nulla il risultato di anni di battaglie giudiziarie e violano il diritto di difesa e l’eguaglianza dinanzi alla legge: un cittadino che si è rivolto allo Stato per ottenere un qualcosa che le leggi dello Stato gli consentono di ottenere non può sentirsi negare quel qualcosa dopo averlo ottenuto per mezzo di una legge ad personam.
Sabato avrei dovuto scrivere che la nostra Costituzione è filosovietica soprattutto all’art. 7, in punto di rapporti fra Stato e Chiesa, perché senza Togliatti, ed il nulla osta di Stalin, De Gasperi non avrebbe mai ottenuto il rilievo costituzionale dei patti lateranensi e la condizione di speciale autonomia della Chiesa cattolica.
Domenica avrei potuto ricordare la Mystery Clause (Joint Court Opinion of Justices O’ Connor, Kennedy and Souter in Planned Parenthood Vs Casey 505 U.S. 833 – 1992 at 851): At the heart of liberty is the right to define one’s own concept of existence, of meaning, of the universe, and of the mystery of human life. Beliefs about these matters could not define the attributes of personhood were they formed under compulsion of the State, cercando di argomentare che uno Stato che legifera sul limite fra la vita e la morte è uno Stato totalitario, esattamente nella stessa maniera in cui lo è uno Stato nel quale la sodomia in luoghi privati è punita con il carcere.
Oggi potrei scrivere, e scrivo, che il Capo dello Stato può rinviare le leggi che gli vengono sottoposte per la promulgazione e che se le Camere abusano del potere che hanno di fissare un termine entro il quale la legge deve essere promulgata (art. 73, secondo comma), impedendo al Presidente della Repubblica di formulare un giudizio meditato sulla deliberazione legislativa, il Capo dello Stato può proporre ricorso per conflitto di attribuzioni alla Corte costituzionale.
Oggi potrei scrivere, e scrivo, che con il potere di fissare i tempi della entrata in vigore della leggi dilatando la promulgazione e usando tutti i trenta giorni di cui all’art. 73, primo comma, Cost., anche al di là di quanto le Camere potrebbero consentirgli, ai sensi del secondo comma dell’art. 73, il Capo dello Stato userebbe degli stessi poteri di clemenza che ha in materia di grazia.
Perché, in fondo, decidere della vita e della morte di una persona è una questione che, come la Corte costituzionale ha riconosciuto nella sentenza 18 maggio 2006, n. 200, non può appartenere all’indirizzo politico di maggioranza.
E’ Napolitano che con un uso costituzionalmente disinvolto del procedimento di promulgazione può consentire alla natura di fare il suo corso e, soprattutto, a un padre di chiudere gli occhi serenamente ad una figlia che ha il sacrosanto diritto di considerare morta.

Non fate l’onda

3 Comments/ in Senza categoria / by Gian Luca Conti
09/01/2009

GelminiLa Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge 1966 di conversione del decreto legge n. 180 del 10 novembre 2008.
Il decreto legge 180 aveva sollevato l’onda studentesca.
Non ci sono modifiche sostanziali nel testo convertito.
Il governo ha anche posto la fiducia chiudendo le porte al dibattito parlamentare e impedendo il voto sugli emendamenti al testo approvato dal Senato.
Senza una motivazione.
Anzi con la motivazione (in questi termini, l’onorevole Vito) che l’ingorgo decretizio rendeva impossibile attendere i tempi di una discussione in aula.
E’ un argomento che si basa su un riferimento circolare: siccome ci sono troppi decreti, che vengono decisi dal governo, il governo non può rispettare le lungaggini del Parlamento nella loro conversione.
Queste lungaggini si chiamano: esame in commissione, relazione all’assemblea, discussione in assemblea, voto.
Vengono sostituite da un solo voto dell’assemblea su un testo bloccato, preceduto dalle dichiarazioni di voto dei capogruppo parlamentari.
Il disegno di legge era stato oggetto di pesanti rilievi sia dell’Ufficio studi della Camera che del Comitato per la legislazione.
Come dire: non solo il contenuto della proposta di legge è discutibile sul piano politico, ma è anche sbagliato sul piano delle regole di drafting che consentono una corretta interpretazione delle disposizioni normative.
Il tutto è finito sui giornali, soffocato da altre notizie più appetitose: Alfano e why not, Il Vaticano e Israele, Gli interventi di Obama per il rilancio delle economie, Le discussioni fra Bossi e Berlusconi su Malpensa, Il futuro della Brambilla: primo ministro della Repubblica in guepiére.
La conversione in legge, che rende definitivo quello che prima era assolutamente precario e provvisorio, però,non ha sollevato nessuna onda.
L’onda aveva bisogno dell’inizio dell’anno accademico per scatenarsi.
Gennaio è un periodo di pausa dalla attività didattica e di esami.
In questi giorni, solo di pausa.
Un periodo che non favorisce le proteste: perdere una lezione non ha mai fatto male a nessuno, saltare un appello scoccia assai di più.
Il futuro dell’università, dal punto di vista delle proteste studentesche, dipende dal calendario accademico.
Non è per nulla serio e dà decisamente ragione al ministro.
Purtroppo.
Ma parecchio purtroppo.

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