Una separazione
Non faccio mai l’avvocato.
Soprattutto non mi piace.
Non sopporto di entrare nei fatti degli altri.
Non tollero ricercare torti e ragioni.
Eppure qualche volta ci sono costretto.
Come oggi.
Stamane mi è toccato di accompagnare un mio amico nella causa di separazione dalla moglie.
Il tribunale è un insieme di corridoi vuoti.
Abitati dal caldo e da strani ed azzimati caimani.
Dal disordine dei fascicoli.
Dal dolore delle storie chiuse nei fascicoli.
Battute a macchina, con la distrazione di una dattilografa che non riesce a piangere dinanzi al dolore che le sue dita pigiano nella tastiera.
Il mio amico – potrebbe chiamarsi N – era disperato.
La moglie ha un altro.
Glielo ha detto da molto tempo.
Ma non riesce a darsene pace.
Il corridoio lo ha guardato a lungo mentre aspettava.
La testa fra le mani.
Le mani dentro la testa.
La moglie lo guardava con pietà.
Come si guarda un uomo che non sa vivere il proprio dolore senza farlo vedere.
Come si guarda un disgraziato con gli occhiali da sole per sopportare la penombra.
Il giudice lo ha guardato a lungo.
Ha chiesto se voleva separarsi.
N ha risposto di no.
Che per lui era tutto a posto, anche se sua moglie aveva un altro.
Che avrebbe aspettato.
Che non c’erano problemi.
Il giudice ha detto che i problemi c’erano.
Perché se lui non voleva separarsi la separazione non poteva essere consensuale.
Allora lui ha risposto che si, voleva separarsi ed ha cominciato a piangere.
Come un bambino stanco che non riesce a dormire.
Con la stessa disperazione quasi assoluta.
E queste lacrime, sul suo vestito, che era il vestito del matrimonio, mi sono rimaste appiccicate addosso.
Mentre guardavo l’avvocato della moglie.
Una donna, vestita di bianco, perfetta per Forte dei Marmi.
L’aria un pò trascorsa.
Le caramelle di chi non riesce a non fumare.
L’abbronzatura che serve per poter portare un abito bianco.
E mi sono chiesto – mi continuo a chiedere – come possa vivere di questo dolore.
Come possa vivere ogni sua giornata rincorrendo l’angoscia di amori che finiscono.
Di figli che entrambi i genitori vogliono.
Di cose che logorano il tuo corpo e non solo il tuo spirito.
Adesso torno alle mie pagine, alle mie riflessioni sulla dimensione costituzionale della proprietà.
Lontano.
Più lontano.
Da tutto questo.
E non riesco a non pensare che non sia umano abituarsi a quelle stanze, fare di mestiere quello che ho fatto per un amico, che non avrei mai fatto se N non fosse un amico, se non avessi ritenuto mio dovere accompagnarlo.
Se non avessi pensato che era necessario.
Umanamente necessario.
Però in fondo dovrebbe essere questo il mestiere dell’avvocato: essere amico di chi non ha amici ed accompagnarlo in un viaggio dentro alla propria miseria.
Forse.
Magari.
Ma non lo so.