La morte della quercia
Guardo il suo povero corpo ricomposto nel letto.
E’ ancora caldo.
Inizio dai piedi: ha un paio di scarpe nuove. Non le indossava più. Gli hanno trovato le sue scarpe da ginnastica preferite. Metteva solo quelle e mi faceva sorridere. Erano le scarpe di Olivia Newton John quando insegnava aerobica.
Ha i jeans. Normali jeans. Credo di avergli sempre visto i jeans. E una giacca grigia, tutti i bottoni ben chiusi. Una camicia bianca, senza cravatta.
Il viso, finalmente, è disteso. Gli ultimi giorni sono stati terribili. Il tumore lo aveva gonfiato e lui non riuscita più a parlare. Non ha più nemmeno quel terribile rigonfiamento che straziava la sua fronte da oltre un anno.
Poche persone attorno a lui. I familiari più stretti. La moglie che lo ha accudito come si governa un animale morente. Con la stessa disperata pazienza. La madre che sembra scolpita nel legno di iroko e che piange lacrime di betulla. Ha un nome di bambina e sono di bambina quelle lacrime:
Che ne sarà di noi senza di lui, era lui quello forte?
E’ vero, lui era una quercia e le querce non muoiono. Le querce vengono tagliate.
Ma questo è la morte per ciascuno di noi: il momento in cui si viene tagliati e si perdono le radici.
Morire non è cadere, è un colpo d’ascia, di falce, una sega che lentamente incide e recide.
Lo guardo e so che lui ha lasciato il vuoto della quercia.
Della quercia che sta in mezzo a una radura.
Perché ognuno di noi è fissato a terra con pazienza di pianta ma pochi hanno la tenacia della quercia e quei pochi lasciano il mondo più solo.