La funzione del sindacato: fra Camusso e test invalsi
C’è un sapore molto vecchio nella voce rauca della segretaria della CGIL al congresso di Rimini, un sapore di Muratti e nazionali esportazione, piuttosto lontano dal profumo delle sigarette elettroniche che si vedono a giro.
La segretaria del maggiore sindacato italiano ha parlato per quasi due ore, leggendo un intervento che odorava di anni settanta, sia per il tempo dedicato alla sua lettura sia per lo stile dell’argomentazione.
Ha minacciato e blandito, ha sostenuto la necessità della lotta sindacale perché “una vera vertenza vuol dire una piattaforma, le assemblee, un percorso vertenziale vero e proprio”. Difficile dire che cosa significhino queste parole al di là del loro suono.
Possono però trovare un banco di prova nel rifiuto degli insegnanti elementari di far sostenere agli studenti che sono loro affidati i test invalsi. Questi test dovrebbero servire a verificare il grado di preparazione degli alunni con riferimento ai programmi ministeriali. Gli insegnanti si rifiutano di sottoporre i loro studenti a questi test e non sono poco le classe che hanno visto una sorta di sciopero bianco in cui i genitori si sono sentiti avvertire che i loro insegnanti si sarebbero assentati per malattia e invitare a fare altrettanto con i propri figli.
Si dice che i test sarebbero ingiusti sotto due diversi profili. Da una parte, non sarebbe giusto che i singoli insegnanti siano sottoposti a un giudizio circa la qualità del loro lavoro, che non dipenderebbe solo da loro ma anche dal capitale umano che viene messo a loro disposizione. Dall’altra parte, si dice che gli stessi alunni vedrebbero i loro test analizzati in forma non particolarmente anonima, ma collegati al loro ceto e al livello di istruzione dei genitori.
Non c’è nulla di male, però, che lo Stato controlli la qualità del lavoro dei propri insegnanti. Questo lavoro deve garantire a tutti gli alunni – tutti, non solo alcuni – di accedere al numero di parole che segnava la differenza fra i ricchi e i poveri secondo Don Milani. Deve assicurare che nessun bambino di seconda elementare non abbia imparato le tabelline e non sappia leggere e comprendere un brano del suo libro di lettura.
C’è molto di male, invece, nella pretesa degli insegnanti di sottrarsi a questa verifica, nella sostituzione del loro giudizio individuale circa la qualità del proprio lavoro al controllo ministeriale circa il raggiungimento degli obiettivi fissati dal programma, perché in questo modo la qualità del lavoro non viene giudicata dal punto di vista dell’apprendimento degli alunni, ma dal punto di vista di chi lo ha svolto e un bravo insegnante non è quello che passa i propri studenti ma quello con la cui preparazione gli studenti sono in grado di superare l’esame di un altro insegnante.
Questa vertenza non parla bene del sindacato, perché mostra non una difesa della dignità del lavoro e delle legittime aspettative di chi sacrifica il proprio tempo in cambio di un salario, ma l’arrocco nell’autoreferenzialità del lavoro, il rifiuto del controllo, la pretesa di essere in grado di giudicare se stessi.
In fondo, se uno si chiede in base a quali criteri si deve decidere la retribuzione di un insegnante, sembra difficile non poter sostenere che questa retribuzione deve essere in funzione della qualità del lavoro svolto e quindi della preparazione raggiunta dagli studenti che alleva.
Il sindacato che rifiuta i test invalsi è un sindacato molto lontano da quello (era la FIOM) che fra il 1951 e il 1953 occupò il Pignone a Firenze per scongiurarne la chiusura e pretese di continuare la produzione, pretese di sottoporre la propria capacità di organizzazione del lavoro alla prova del mercato e convinse Mattei ad acquisire la proprietà del complesso industriale, non per scongiurare la disoccupazione, ma perché quell’occupazione era utile ed era utile nell’interesse della Repubblica.
Per Marx, il partito, anche il partito unico destinato a esprimere la volontà direttiva dello Stato all’interno di una dittatura proletaria, doveva tollerare il pluralismo sindacale e questa forma del pluralismo era l’unica eccezione al sistema di valori totalitario che si sarebbe affermato per effetto della crisi inevitabile del processo capitalistico.
Forse, il nostro sindacato non ha mai volutamente valorizzato il pensiero di Marx: non lo valorizzavano Lama e Natta e non lo valorizza la Camusso, che muove continue osservazioni alla piattaforma politica del Governo e Renzi, probabilmente, ha ragione di richiamare il sindacato al proprio ruolo naturale.
Ci piacerebbe poter dire che il sindacato in Italia non è una palude, ma perché questo sia possibile non dovrebbe fare politica o se proprio dovesse farla, dovrebbe impegnarsi sul piano del linguaggio ed evitare di difendere privilegi.