Il cielo sopra maggio
Oggi, non c’erano rondini
Danzavano sopra le nuvole
Nascondendo la primavera
Fino a maggio, quest’anno, è arrivata la solitudine dell’inverno.
Oggi, non c’erano rondini
Danzavano sopra le nuvole
Nascondendo la primavera
Fino a maggio, quest’anno, è arrivata la solitudine dell’inverno.
Norma Rangeri sul Manifesto di questa mattina ha preso una posizione chiara a favore dei rider, i fattorini che portano piatti pronti dai ristoranti alle case dei loro clienti.
I rider hanno fatto notare ai clienti, ricchi e famosi ma anche piuttosto tirchi, che sanno dove abitano.
Il che suona come Voi non ci date la mancia e noi raccontiamo a tutti dove state di casa, così imparate
Per Norma Rangeri, non ci sarebbe niente di male in un fattorino che chiede la mancia e ciascuno dovrebbe sentire il dovere di remunerare spontaneamente il lavoro di chi sa non essere pagato in misura tale da poter vivere una esistenza libera e dignitosa secondo il contratto collettivo di riferimento.
Una posizione più che discutibile e molto vicina alla retribuzione compassionevole del cameriere nei paesi di lingua inglese.
La prima volta che sono stato in un albergo di lusso, il facchino mi prese la borsa malgrado le mie proteste, mi accompagnò alla camera, mi mostrò con cortesia tutto quello che dovevo sapere e, quando tirai fuori di tasca cinquemila lire, disse Questo è il mio lavoro chiudendo la porta sul mio imbarazzo.
La lotta per un contratto più giusto ed equo è ragionevole, legittima e, spesso, degna di ammirazione.
Il ricatto per la mancia è altro. E’ l’assalto dei miserabili al palazzo del re.
Dispiace leggere sul Manifesto la sua difesa ma un tempo in via Tomacelli c’era anche l’ufficio di Craxi e non solo la redazione del più puro fra i quotidiani della nazione.
Ci sono sogni che fanno soffrire fino a che non sanguina il naso
Leda dormiva uno di questi sogni
L’amore di Tindaro la cingeva come edera
Eterno
L’amore dell’edera, un rampicante sempre verde che abbraccia e fa morire,
Dormiva quando Giove stuprava i suoi sogni
Li faceva sanguinare
L’amore di un dio, dimenticato e distratto che abbraccia e fa morire,
Ma non erano i sogni di quella notte che fecero davvero soffrire Leda
Fu l’amore di Tindaro che chiedeva vergogna per uno stupro
Leda non poteva vergognarsi
Non di un sogno
Non della propria natura che aveva generato quel sogno
Nemmeno quando questa nasce, nove mesi dopo.
Venere è stanca
Stanca di vivere come solo una Dea può esserlo
Sa che il segreto dell’eternità è l’eterno ripetersi
Non è immortale chi non muore
Sarebbe troppo semplice
E’ immortale chi si ripete e, ripetendosi, smette di vivere
Smette di provare l’attimo di stupendo stupore di una goccia di luce bagnata da un raggio di rugiada
Stupore che giustifica e paga la morte
Questo non è se tutto si ripete, esattamente eguale, ogni giorno
Lo ha imparato da Sisifo
Immortale perché condannato a trasportare una pietra che sempre cade e sempre deve essere trasportata da dove di nuovo cade
La condanna di Sisifo è il rimprovero dell’astuzia che ruba ciò che dovrebbe essere pagato
Non sapeva Sisifo il prezzo del fuoco?
Non sapeva Sisifo di essere debitore per quel fuoco e di essere creditore per quel dono?
Non sapeva che solo chi non accetta i propri debiti non sa esigere i propri crediti?
Questo pensa Venere mentre si rifugia in giardino
Stanca di vivere come solo una Dea può esserlo
Ignorante di chi le è creditore e di chi può chiederle lo spreco di un sorriso
Guarda Venere il suo giardino
Lo osserva e pensa a quelle piante
Così legate fra di loro e fra di loro legate a lei
E pensa non io devo sapere chi mi deve e a chi io devo
Non se sono una pianta
A tutto collegata e a tutto connessa
Debiti e crediti che si compensano fra di loro perché la vita è neurale
Lo pensa e vede che anche questo è immortale
Noioso e immortale come la pietra di Sisifo.
Giocasta, Caterina Vertova – Valle dei Templi
Edipo ha bevuto, leccato, baciato le lacrime di Giocasta ogni volta che l’ha amata
Nulla conosceva di quegli amplessi se non l’orribile oblio che li accompagnava
Questo ha amato Edipo amando la madre come una vecchia puttana da possedere su un triclinio zoppicante, pensando
Che sarebbe stato dimenticanza, facile perdono, vergogna e orgoglio
Spirito, carne, piacere, dolore
Ma soprattutto orribile oblio
Che sarebbe stato piacere e lacrime a bagnarlo, un pianto di occhi che avevano imparato l’apnea dei sogni perduti nel letto di Creonte
Nelle notti passate ad aspettare un re che solo sapeva chiedere risate di falsa gioia e apparenze d’allegria senza capire di russare accanto a lei che vegliava gli incubi tessuti dalle cicatrici che l’amore disegna
Tatuaggi di lebbra
Era questo il pianto di Giocasta: non ci sono parole che possono scivolare nelle fantasie dei sempre quando l’ipocrisia dei mai è un trucco che si indossa per sopravvivere
Giocasta, al culmine dell’orribile oblio, ha donato i suoi occhi a Edipo, azzurri come la pietra di cui è fatto il cielo, sapevano di pianto e profumavano di grotta
Li ha regalati perché imparasse a vedere come se fosse lei, perché guardasse quello che lei vedeva, per guardare quello che lui vedeva
Edipo ha visto
Ha visto così forte da accecarsi e ha vagato l’infinito deserto del mito continuando a chiedersi se Giocasta gli avesse donato il buio della notte o la luce delle stelle
Non ci sono, però, risposte alle domande intrise della rugiada salata che cade dal cielo orribile dell’oblio
L’amore di chi si abbandona all’amarezza di donarsi per dimenticare
Cancellando – con furia di baccante – ogni ricordo di dolcezza
E’ il dono che lasciano alla notte le stelle quando decidono di fuggire.
Venere è una tela che Botticelli ha copiato da un sogno neoplatonico. Due pezzi di lino cuciti insieme. Gesso e oro per disegnare il mare di Zante senza avere mai visto un’onda ma come lo osserva chi accarezza il dorso delle onde con la chiglia e ne penetra i segreti con il timone.
Venere, però, è anche una tela che Caravaggio ha copiato da Botticelli, corrompendo quelle linee tagliate come norme e numeri, osservando quel mare come chi c’è caduto e sa che manca poco ad affogare. Il volto di Venere è più dolce e sporco. Il volto di una madre che gode mentre i figli dormono nella stanza accanto. I suoi piedi sono perfetti: Caravaggio sapeva che Botticelli non era capace di disegnarli. Hanno unghie consumate dagli anni, quel colore di avorio sporco e accidentato che prendono le unghie dei barboni quando escono dalle loro scarpe.
Anche questa Venere è nata di marzo, esattamente come quella disegnata e dipinta da Botticelli. Tutte e due hanno sul volto la stessa domanda, la domanda di chi sa che nascere è abbandonare un abbraccio senza più poter dimenticare la sua dolcezza:
Adesso, dove vado?
Botticelli sa che dopo marzo viene aprile e che tutto questo è primavera e lo sa la sua primavera.
Caravaggio, invece, nel suo marzo sa vedere già il dolore di febbraio.
P.s.
Ovviamente Caravaggio non ha copiato la Venere di Botticelli.
Ovviamente e purtroppo.
Elena non ha perso la guerra di Troia
L’hanno persa Agamennone, Achille, Filottete, Ettore, Priamo, Paride…
Tutti, tranne Elena, forse, hanno perso la guerra di Troia
Nessuno di questi eroi ha però mai vissuto
Veramente vissuto
Se non nell’infinito di quelle battaglie
Il prezzo di Elena è vivere, riposare, amare dopo avere respirato il fumo della pira di Patroclo
Questo Elena ha donato ai suoi re, principi e schiavi: l’eterna morte di chi è condannato a vivere dopo avere vissuto
Non le è importato perché, forse, anche Elena è morta quando l’ultimo principe si è allontanato dal buio illuminato dal selvaggio baccanale dei saccheggi
Ha scoperto di essere sola
Più sola del mare d’Ulisse.
Dimentico il dolore delle promesse sussurrate nella polvere di notte con passi di cieco
Parole leggere nella luce di fuochi fatui spezzano orribili silenzi scampati a verità consumate dal fumo e dal Martini
Un tacere ingannevole per un cretino che non voleva arrendersi alla grottesca cronaca dell’eterno ritorno
Ora non posso. Non puoi. Hai potuto
Niente è più leggero del male degli altri se è il prezzo della selvaggia gioia con cui si è deciso di sopravvivere in una vita di cartapesta senza annegare nel buio di una piscina
Troppe volte ho voluto dimenticare che le mie parole non valevano la memoria di chi riposava ascoltandole e, ora, ora che c’è un sole nebbioso, è il tempo giusto per morire a chi ha saputo imparare tutto ciò che l’amore non vale dal presente di chiodi per farfalle in cui si è trafitta.
Il fotografo di matrimoni non voleva fare il fotografo di matrimoni ed è morto giovane.
Di qualcosa che non ha nome ma fa molto male. Anche a uno che amava il gioco e si stonava di bingo.
Odiava i matrimoni perché diceva che c’è una sottile distanza, un impercettibile confine fra gli istanti.
Ogni decisione è poco più di un attimo. Ma ci sono attimi nei quali si decide per tutta la vita.
Può andare bene e capita di essere felici ma può andare anche molto male ed essere infelici per tutta l’eternità. Può, infine, andare ancora peggio e passare la propria vita a rimpiangere di non avere deciso per paura di decidere.
Si deve scegliere con attenzione perché ci sono scelte che possono rovinare per sempre. Ma non con troppa attenzione perché niente è così importante da non meritare di essere giocato.
Odiava i matrimoni per questo. Perché lui sapeva vedere il futuro delle scelte degli altri attraverso il mirino della sua Yashica e non c’è niente di divertente nel fotografare la nascita di un inferno.
All’inizio dell’anno scolastico ci sono gli esami di riparazione.
L’inizio dell’anno scolastico è la folla degli studenti che aspetta di entrare a scuola per l’esame di riparazione.
A scuola, si può essere rimandati a settembre.
C’è una seconda possibilità.
C’è la possibilità di scambiare l’estate per quello che non si è fatto durante l’inverno.
Non sono mai stato rimandato a settembre, a scuola.
Spesso, invece, nella vita.
Dove però gli esami di riparazione non sempre riescono bene.
Ci vuole il coraggio dell’ostinazione e l’umiltà della tenacia per superare un esame di riparazione.
Lo penso mentre guardo la folla degli esami di riparazione e pedalo verso una giornata che anche per me assomiglia a un esame di settembre, senza sapere se, questa volta, sarò in grado di superarlo o se sarò bocciato.