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Tag Archive for: donne

Gli spettri di Itaca

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
23/06/2020

Le unghie si spezzano se le mani costruiscono qualcosa che non esiste, qualcosa che Penelope disfa mentre tu, il più inutile dei suoi corteggiatori, continui a cercare i suoi sogni e la sua pace.

Non puoi trovare la pace di una donna che ti guarda sognando un uomo in viaggio.

Non sei tu la sua pace, non sei tu i suoi sogni. Tu sei ciò che è casa quando la casa è vuota.

Lo sai, lo sai benissimo e sai anche che il tuo viaggio dovrebbe riprendere, non può essere fatto di parole che offendono l’intelligenza, di risposte che non hanno letto la sostanza del tuo cuore, che lo calpestano senza comprendere, senza che tu meriti di essere compreso.

Non ci sono lacrime negli occhi di Penelope quando Ulisse imbraccia il suo arco. C’è una sorda gioia che segue il percorso delle frecce che ti trafiggono. Tu la vedi quella sorda gioia. Ti trafigge prime delle frecce.

E resti in quella reggia perché il tuo cuore è diventato lo spettro di tutto quello che aveva sognato e indossa le sue catene sperando di non svegliare Penelope mentre dorme accanto al suo Ulisse, senza che tu sia mai stato veramente un suo pensiero.

Il fantasma di Anna Bolena

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
18/06/2020

Anna Bolena era una troia, non una troia da baraccone, ma una troia reale. Magari non era nemmeno troppo troia, magari non scopava con il fratello, il musico e il pirata, magari era solo una rompicoglioni ma il suo re decise che era una troia perché l’amava teneramente, profondamente, ingenuamente.

Anna Bolena aveva un amante, magari non ce l’aveva, ma il suo re decise che aveva un amante e che questo amante era un vichingo, che fosse il fratello, il musico o il pirata, chiunque di questi fosse, o fossero anche tutti e tre insieme, in ogni caso l’amante di Anna Bolena era un vichingo e la scopava come un vichingo prosciugandola e dissentandosi. Prosciugandosi e dissetandola.

Abbastanza per un processo: un re non si tradisce.

Abbastanza per una condanna a morte: un re non si tradisce con un vichingo.

Anna Bolena era una troia elegante e indossò il suo abito da sposa per il boia che l’avrebbe prosciugata senza dissetarsi, era un francese e non un vichingo. Provò la testa sul ceppo nella notte prima della esecuzione. Se si tradisce un re, si deve saper morire da regine, anche se il re non si è tradito, anche se il sesso con il vichingo, fratello, musico e pirata era un’invenzione di corte.

Anna Bolena era una troia piangente, capace di fuggire dagli Yeomen che la scortavano per spezzarsi le dita contro il granito della porta dietro alla quale Enrico pregava, perché i re pregano e gli dei hanno sempre belle parole per chi sa che cosa devono dire, ma non hanno orecchie per ascoltare chi gli chiede frasi che solo loro possono pronunciare.

Anna Bolena adesso è solo il fantasma di un’opera per abiti da sera e vernissage eleganti, ma a lungo è stata il fantasma dell’uomo che aveva tradito o che non aveva tradito, poco importa a una testa che rotola dal corpo. Quell’uomo che si era convinto che lei scopasse con un vichingo mentre lui l’amava teneramente. Che si era sentito umiliato dal fratello, musico e corsaro, dal loro dissetarsi dissetando, prosciugare prosciugandosi. Come si può sentire defraudato un amore tenero da un amore selvaggio, quasi un teorema per Sanremo. Ma non era così: le donna che si dissetano prosciugandosi, che non si fermano alla prima fonte che trovano lungo il sentiero, che cercano il sapore di tutte le bottiglie che un sommelier può aprire durante un’orgia, non vogliono tenerezza. La tenerezza chiede comprensione, la dolcezza vuole perdonare, l’amore chiede amore. Vogliono uno che si sappia prosciugare come loro, che sappia far male. Perché non ci sarà bisogno di comprensione, dolcezza o amore per bere a un’altra fonte e tornare a dissetarsi del fratello, musico, pirata. Non ci sarà bisogno di niente. Solo di una festa in maschera.

Questo Enrico non lo aveva capito. Per lui, era solo una troia. La troia di un re. Il fantasma di un re. Perché quando un re ama una troia e la troia muore, il fantasma di quell’amore resta. Non basta la dignità a scacciare i fantasmi. Non basta sapere che la sete di chi sa dissetare prosciugandosi è inesauribile. Che chi non nasce vichingo non lo diventa neppure se sposa Freya.

Ogni addio genera un fantasma e quel fantasma ripete, ogni notte, con la testa sotto il braccio, E’ inutile cercare quello che non esiste. E’ inutile, Anna, cercare un vichingo. E’ inutile, Enrico, cercare una sposa. Si trovano solo fantasmi e, in questa storia, i fantasmi si dissetano prosciugando.

Pozioni di amore

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
23/10/2019

http://simonabaldanzi.it/figlia-di-una-vestaglia-blu/

Le pozioni di amore sono intrugli di mandragola e ramerino,

mela e cannella, aglio e sangue, mescolati con birra chiara e malto,

le streghe sanno farle, gli uomini non sanno rifiutarsi.

Portano ovunque, fanno dimenticare tutto,

trascinano in un mondo in cui sembra che tutto sia ancora giovane,

in cui i sogni sono adolescenti e il cuore ricomincia ad ascoltare i suoi battiti.

Non perdono i loro effetti le pozioni di amore.

Sono persistenti, allegano l’anima al sogno, dissetano il cuore con la geometria della speranza.

Solo chi le ha confezionate, conosce il rimedio e ha bisogno del buio, di uno sguardo cattivo, di parole senza dolcezza, di nervosa cattiveria,

Fino a che non è vomito, un feroce e amaro schizzo di vomito, nel quale si riconosce tutto ciò che quell’amore è stato, pezzi di anima e di cuore come cibo maldigerito dal vino di una nottata di bagordi.

Quel vomito è l’antidoto perché dall’amore si guarisce solo sputando i succhi gastrici dei propri sentimenti che non sono riusciti a digerire la potenza del sogno.

Tacchi giavellotti

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
16/06/2019

Le donne che lanciano il giavellotto hanno un fisico particolare.

Può non piacere ma colpisce.

La stessa cosa vale per alcuni tacchi.

Non tutte li possono indossare come non tutte possono lanciare il giavellotto o il disco.

Sono quelle scarpe con il tacco stretto e lungo non troppo diversi da un cacciavite.

Ci vuole un fisico apposito non tanto per ragioni estetiche ma perché esigono caratteristiche fisiche non comuni e un grande spirito di sacrificio.

Cose che mancano del tutto in quelle povere signore che infilano a forza la loro menopausa in sandali e gambaletti color carne.

Suicidio per cause naturali

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
08/06/2019

Viale Mazzini

Era nata o nato in un corpo che non era il suo.

Aveva imparato a nasconderlo e forse lo aveva anche cambiato un po’.

Camminava, spesso, in quelle ore in cui non ci si incontra. Quelle ore che nascondono le rughe e nelle quali è più facile lasciarsi amare da chi non conosce l’amore.

Viaggiava con gambe muscolose. Fasciate in fuseaux neri che la facevano somigliare a un ciclista più che a una donna.

Solo una volta l’ho sentita parlare. Ha preso fra le sue le mani di una donna di servizio. Una ragazza, rumena, poco più di venti anni. Meno di trenta all’anagrafe. Molti di più allo specchio, ma quello non importa.

Ha detto che erano belle ma le unghie erano rovinate e le ha chiesto di passare perché voleva sistemarle. Ha voluto specificare che non le avrebbe chiesto nulla.

Ho visto il sorriso di quella ragazza. Sfiorata da un’attenzione piena di dolcezza. Un sorriso di chi non spera più di trovare parole dedicate a lei.

Adesso, è morta. Come si muore in un appartamento. Sola e di solitudine. Suicidio per cause naturali, anche se il medico legale scrive diversamente.

Ma a me piace ricordarla mentre camminava. Fuori luogo, nelle ore più calde o in quelle più fredde. Mi piace pensare che sia stata ingoiata dalla strada, da questa strada che osservo ogni giorno dall’alto e che mi somiglia a un mare.

Un mare senza pietà che sa inghiottire i suoi naufraghi e non dona nessuna allegria a chi sopravvivendo riprende il viaggio.

Resta la sua casa con le finestre chiuse come palpebre sotto il sudario.

I sofferenti sogni di Leda

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
24/04/2019

Ci sono sogni che fanno soffrire fino a che non sanguina il naso

Leda dormiva uno di questi sogni

L’amore di Tindaro la cingeva come edera

Eterno

L’amore dell’edera, un rampicante sempre verde che abbraccia e fa morire,

Dormiva quando Giove stuprava i suoi sogni

Li faceva sanguinare

L’amore di un dio, dimenticato e distratto che abbraccia e fa morire,

Ma non erano i sogni di quella notte che fecero davvero soffrire Leda

Fu l’amore di Tindaro che chiedeva vergogna per uno stupro

Leda non poteva vergognarsi

Non di un sogno

Non della propria natura che aveva generato quel sogno

Nemmeno quando questa nasce, nove mesi dopo.

Venere giardiniera

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
10/04/2019


Venere è stanca

Stanca di vivere come solo una Dea può esserlo

Sa che il segreto dell’eternità è l’eterno ripetersi

Non è immortale chi non muore

Sarebbe troppo semplice

E’ immortale chi si ripete e, ripetendosi, smette di vivere

Smette di provare l’attimo di stupendo stupore di una goccia di luce bagnata da un raggio di rugiada

Stupore che giustifica e paga la morte

Questo non è se tutto si ripete, esattamente eguale, ogni giorno

Lo ha imparato da Sisifo

Immortale perché condannato a trasportare una pietra che sempre cade e sempre deve essere trasportata da dove di nuovo cade

La condanna di Sisifo è il rimprovero dell’astuzia che ruba ciò che dovrebbe essere pagato

Non sapeva Sisifo il prezzo del fuoco?

Non sapeva Sisifo di essere debitore per quel fuoco e di essere creditore per quel dono?

Non sapeva che solo chi non accetta i propri debiti non sa esigere i propri crediti?

Questo pensa Venere mentre si rifugia in giardino

Stanca di vivere come solo una Dea può esserlo

Ignorante di chi le è creditore e di chi può chiederle lo spreco di un sorriso

Guarda Venere il suo giardino

Lo osserva e pensa a quelle piante

Così legate fra di loro e fra di loro legate a lei

E pensa non io devo sapere chi mi deve e a chi io devo

Non se sono una pianta

A tutto collegata e a tutto connessa

Debiti e crediti che si compensano fra di loro perché la vita è neurale

Lo pensa e vede che anche questo è immortale

Noioso e immortale come la pietra di Sisifo.

Elena non ha perso la guerra di Troia

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
07/03/2019

Elena non ha perso la guerra di Troia

L’hanno persa Agamennone, Achille, Filottete, Ettore, Priamo, Paride…

Tutti, tranne Elena, forse, hanno perso la guerra di Troia

Nessuno di questi eroi ha però mai vissuto

Veramente vissuto

Se non nell’infinito di quelle battaglie

Il prezzo di Elena è vivere, riposare, amare dopo avere respirato il fumo della pira di Patroclo

Questo Elena ha donato ai suoi re, principi e schiavi: l’eterna morte di chi è condannato a vivere dopo avere vissuto

Non le è importato perché, forse, anche Elena è morta quando l’ultimo principe si è allontanato dal buio illuminato dal selvaggio baccanale dei saccheggi

Ha scoperto di essere sola

Più sola del mare d’Ulisse.

Disprezzo zingaro

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
21/12/2018

Le tempeste sono terremoti che non lasciano tracce

subito torna l’allegria sulla superficie del mare

Ma le tempeste vere arrivano al fondo

lo squassano, rivoltano e lasciano cicatrici profonde

dove non sono occhi di uomo

Questo sa chi ama

che non resterà niente se non una ferita invisibile

fino alla prossima tempesta, fino all’inevitabile dolore del domani

Lo sa e ama le sue ferite aperte

perché è diventato un uomo rinunciando ai porti che delle tempeste conoscono i saldi ormeggi

prendendo il mare senza guardare l’orizzonte.

I pensieri politicamente scorretti di Bimba Impertinente (Marina Abramovic)

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
16/10/2018

E’ qui l’artista? O qui c’è un’artista?

Sono le domande poste dall’adolescente Bimba Impertinente che il crudele padre ha portato con sé alla mostra di Marina Abramovic dentro Palazzo Strozzi.

La guida – una signora che si trova palesemente molto più a proprio agio con i fondo oro degli Uffizi e usa il “tu” sapendo che quello che gli altri avvertono come confidenza per lei e tutti i suoi avi si chiama “tuaccio” – ha avvertito che “Marina” (perché chiamarla per nome? Qualcuno ci ha mangiato insieme?) si può amare o disapprovare, ma non ignorare.

Bimba Impertinente osserva con curiosa disapprovazione. Cerca di capire, chiede. Il padre le spiega che la Jugoslavia dei primi anni settanta era un luogo lontano da tutto, prima di tutto da se stesso. Una sorta di razzo lanciato verso le stelle su una rotta sbagliata. Le rammenta Hrabal, che ha segnato la sua educazione sentimentale, e le racconta le performance di Károly Halász nell’Ungheria degli stessi anni.

Bimba Impertinente è scettica. Guarda con malcelato disgusto il furgone cellulare all’ingresso della mostra, considera come sgraziati i dipinti giovanili, cerca di penetrare il significato delle performance chiamate Rhythm, ma il bianco e nero virato su un contrasto quasi assoluto grazie ai nitrati di argento non le dice moltissimo.

Soprattutto, dal suo punto di vista, non è ragionevole considerare il proprio dolore una cosa interessante per altri da sé. Bimba Impertinente intende perfettamente il dolore della signora Abramovic, la difficoltà di crescere nell’affetto anaffettivo di due eroi (di guerra e serbi), l’oscurità delle notti di Belgrado, la perfetta solitudine di un aeroporto da cui non parte niente e dove non arriva nessuno. Tutto questo è vicino a un’adolescente, forma i suoi tessuti più profondi. Quello che non comprende è perché il dolore di un uomo, per colui che soffre, possa essere “interessante” e anche questo è tipico dell’epidermide con cui l’adolescente comincia a indossare il mal di vivere.

Per chi suona la campana? L’eterna domanda di John Donne ne nasconde un’altra: A chi interessa se la campana suona per me? o Mi interessa che a qualcuno interessi se la campana suona per me?

Forse è questa la vera domanda e l’osservazione di Bimba Impertinente, alla fine della mostra di Marina Abramovic, è

Perché alla signora Abramovic interessava tanto che gli altri conoscessero il suono del suo dolore? Che bisogno aveva di farlo conoscere?

Molto probabilmente non sarà mai un’artista, ma come “signora” promette davvero bene.

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