Il primo giorno di primavera è un inganno.
Non perché la primavera non arriva ai primi di gennaio.
E nemmeno perché stanotte pioverà di burrasca e domani sarà freddo.
Ma perché dopo ogni primavera l’inverno torna e credere nella primavera è come credere nei fiori.
Un inganno che appassisce.
Davvero posso ritardare l’Epifania?
La Befana che arriva di notte può essere fermata a qualche valico e trattenuta per qualche giorno?
Mi piacerebbe che queste vacanze durassero ancora per qualche minuto.
Che non fosse già arrivato il momento di spengere le luci all’albero di Natale e di chiudere il presepio nella sua scatola.
Ma è arrivato e (fortunatamente?) nemmeno le grandi corporation della rete possono ritardare il calendario liturgico.
L’estate di Ragazza Impertinente è stata funestata dai compiti.
E’ diligente ma non particolarmente studiosa.
Uno dei suoi crucci sono i temi.
Ama leggere ma molto meno scrivere.
E’ sintetica. Non scrive mai più di quello che vuole dire e cerca sempre di dirlo con il minor numero di parole. Non riesce a essere ruffiana con i lemmi e la sua fantasia non ama girare intorno ai concetti che esprime sempre in modo molto pratico.
Mi piace il suo modo di scrivere.
Meno alla sua professoressa.
Uno dei temi era intitolato “L’ultimo giorno”.
Ha affrontato diversi ultimi giorni: l’ultimo giorno di scuola, l’ultimo giorno delle vacanze, l’ultimo giorno del campo scout ecc.
Di ognuno di questi ha dato una descrizione pratica: l’ultimo giorno di scuola si devono schivare i gavettoni dei maschi. L’ultimo giorno delle vacanze si deve pensare a cosa indossare il primo giorno di scuola. L’ultimo giorno di campo scout bisogna trovare tutto quello che si è perso in quindici giorni di tenda.
Ha scritto anche – non è particolarmente ottimista – dell’ultimo giorno di vita, immaginando che cosa avrebbe fatto se avesse saputo che quello era il suo ultimo giorno di vita.
Vorrei andare a Disneyland e avere il pass che ti fa evitare le code, poi vorrei andare sul surf e cavalcare delle onde altissime, poi vorrei andare a fare shopping e comprare tutte le cose che desidero e vorrei, vorrei, vorrei…
Ho chiesto se non erano troppe cose per un giorno solo e soprattutto per un giorno come quello.
No, perché se fosse il mio ultimo giorno di vita, io proprio non vorrei saperlo e non pensarci mi sembra il minimo, anche se un demone dispettoso me lo dovesse dire…
Il Boggi lo conosco fai tempi del liceo.
E’ sempre stato un imbecille, un simpatico imbecille, di quelli con cui è piacevole passare il tempo, discutere del centro delle donne e da lì passare alla Divina Commedia.
Perché, in fondo, le due cose sono collegate dallo stesso cervello in cui abitano come se fosse un condominio pieno di gente bislacca.
Lo incontro dopo un intervallo compreso fra i venti e i sessanta anni. Dopo che ci si era lasciati in un liceo di tanti anni fa, persi nell’alternativa amletica della ricreazione: il Mars o il panino con la mortadella?
Mi racconta di sua madre. Della morte di sua madre, di quegli anni in cui l’Alzheimer le è entrato in bocca e le ha rubato le parole, lavandole come se fossero scritte sulla sabbia dei mare, onde che le entravano in bocca all’inizio di una frase e uscivano prima che la finisse.
Mi racconta di due anni passati a guardarla legata in un letto, del desiderio di soffocarla per non vederla più in quelle condizioni e del sollievo quando finalmente è soffocata da sola.
Mi colpisce allo stomaco con la semplicità del dolore vero e maschero la commozione con un velo d’indifferente fastidio, come se stessi leggendo e non avessi voglia di essere interrotto dalla [inutile] cordialità del vicino.
Se ne accorge e d’un balzo:
Ma ti rammenti quando s’era ragazzi e le seghe erano uno sfogo? Ora mi ci vuole un’ora e son diventate un passatempo.
Va via, ridendo sgangherato, senza salutare. Com’è di due che si son rivisti quasi si fossero appena lasciati ma si salutano per non vedersi più.
Simenon è scrittore di tremenda e folle agilità narrativa, la sua capacità di scrivere e di narrare ha un che di osceno per la rapidità con cui una somma di pensieri si distende sulla pagina e diventa immagini: dipinge acquerelli con la profondità di una gymnopedie.
Le campane di Bicêtre sono uno dei suoi romanzi che preferisco: è il Simenon dell’autobiografia, quello che ha saputo scrivere alla madre mentre morivano entrambi. Lontano da Maigret. Read more →
Penso: vuoto tabernacolo è un corpo quando gli occhi, come candele al vento, si spengono,
Mentre mi avvicino, solo per un abbraccio, a un amico, per me più di un fratello
E so che il suo dolore non lo posso capire,
Perché non potrò mai sapere che cosa significhi perdere un padre che per tutta la vita ti è stato padre.
Di questo piango nel silenzio dei miei pedali,
Ancora una volta il dolore degli altri serve solo a risvegliare il nostro.
Non sono cinquanta le sfumature di grigio che ha visto il piccolo bretone nella sua breve vita.
Sono molte di più.
Ha corso e percorso la Francia, il Belgio e l’Italia.
Piegato sulla sua bicicletta, pesante come un cancello.
Ha bevuto vino e ruttato pioggia.
Riprendendo sempre a pedalare, sinché le gambe non sono diventate di piombo.
Lì dove le Ardenne sono state l’inferno di una generazione.
Si pedala fissando l’asfalto, diceva.
Non si alza la testa.
Non si guarda la vetta.
Si evita lo sgomento del panorama.
Si pedala fissando l’asfalto e aspirandone le sfumature.
Come gli eschimesi la neve o i polinesiani il mare.
Si intuisce dalla terra la forza di ogni singola pedalata.
Non si contano quelle che mancano.
Non si perde coraggio nella consapevolezza dei giorni che devono ancora venire.
Si prende coraggio dal presente di ogni spinta verso il basso e dal futuro del calcagno che torna verso l’alto.
E’ qui il senso di tutta la giornata.
In questa gamba sinistra che scende e in questa coscia destra che sale, mentre gli occhi traguardano il suolo oltre il manubrio e le sue strette corna, senza mai guardare il cielo.
Ma è così anche la vita.
La vita dei poveri abituati alla fatica della terra, al sonno pesante della notte alla dolorosa stanchezza dell’alba.
Ogni giorno, una pedalata che fissa l’asfalto, mai gli occhi al cielo.
Perché anche oggi c’è qualcosa da fare, qualcosa di urgente, qualcosa che se si alzasse gli occhi al panorama non si farebbe, presi dallo sgomento del futuro, dal bisogno del cielo stellato e dei suoi universi.
Finché questi occhi piagati di asfalto, come la cataratta di un pescatore, non sono sordi al pianto di un bambino sotto pelle e lì, in quel momento, diventa inutile continuare a correre.
Perché si corre per quel bambino e se si perde l’istante in cui ha bisogno di noi, meglio lasciarsi cadere, che nulla è peggio del raggiungere il traguardo e rendersi conto che le miglia di asfalto che hanno consumato i nostri occhi hanno anche dimenticato la nostra vita.
Dolci le mani che accarezzavano quella testa di bambino in una antica foto
Mani di sconosciuta e memoria di madre
Tenacia di foglie all’ultimo inverno nella lana di un passamontagna
Niente di tutto questo chi mi è stato caro ha mai voluto ricordare
Arrossendo di cose oscene ogni volta che altri – non chi gli era familiare – lo induceva a quei mai lontani giorni.
Pomeriggio di Sole.
Di Sole invernale.
Di quel Sole che non fa rimpiangere né l’estate né la primavera.
In lontananza, ma vicino, dall’altra parte di un fiume di macchine, una solitaria fortezza, dalle alte mura abbandonate.
Lì, molti anni fa, sono stato.
In un pomeriggio molto simile a questo.
L’aria che frizzava di tabacco e bruciava di freddo, del primo tabacco e del freddo che gli adolescenti non sentono mai.
Un pomeriggio perfetto.
Qui, proprio qui, aveva scritto qualcuno in memoria di un amore inconfessabile.
Qui, proprio qui, sono stato giovane.
Come mai più mi è capitato di sentire, quell’unico giorno in cui non si è né bambini né adulti e si vedono le stelle nel vocabolario di greco.