21/04/2009
La settimana scorsa è stata resa nota una lettera inviata dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio e ai Presidenti dei due rami del Parlamento.
In questa lettera, il Presidente della Repubblica si lamentava dell’abitudine del Governo di utilizzare la conversione dei decreti legge per ottenere la approvazione di testi normativi estranei al contenuto originale del decreto legge.
In pratica, il Governo, attraverso i parlamentari della maggioranza, utilizza le corsie accellerate della conversione dei decreti legge per ottenere la approvazione di disposizioni che non vuole né inserire nel testo originale del decreto legge, per evitare il sindacato del Capo dello Stato, né assoggettare alla procedura normale di esame delle Camere, che viene considerata eccessivamente lunga.
Il vantaggio di questa procedura, inoltre, sta nella inevitabile restrizione del potere del Capo dello Stato di rinvio delle deliberazioni legislative, tradizionalmente molto prudente nel caso di leggi di conversione di decreti legge, a causa delle rigidità imposte dall’art. 77, Cost., che prevede la decadenza ex tunc del decreto legge in caso di mancata conversione entro sessanta giorni.
Sul piano del diritto costituzionale, si potrebbe parlare molto a lungo delle possibili modifiche ai regolamenti parlamentari (alcune proposte da Chimenti sono estremamente interessanti) e delle limitazioni al potere di rinvio di cui il Capo dello Stato dovrebbe essere egualmente titolare, senza subire alcuna compressione anche nel caso di leggi di conversione o convalida.
Ma non interessa questo.
Interessa fermare l’attenzione sull’ultimo comma dell’art. 7, d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, come convertito dalla legge 9 aprile 2009, n. 33.
Prima di tutto, la conversione è caduta nell’ultimo giorno di vigenza del decreto legge: il Capo dello Stato aveva le mani istituzionalmente molto legate nella promulgazione.
Secondo, l’articolo è intitolato "Controlli fiscali", ma non parla solo di controlli fiscali. Anzi, parla di molte altre cose.
Terzo, l’art. 7 del decreto legge contava 234 parole, dopo la conversione_trasfigurazione_maquillage ne conta 1895. Esso, perciò, dà perfetta consistenza alle critiche del Capo dello Stato.
Quarto, l’ultimo comma modifica l’art. 2357, c.c., in punto di limiti al possesso di azioni proprie da parte di società che fanno ricorso al mercato. Le azioni proprie sono le azioni che una società può acquistare anche se compongono il proprio capitale sociale. In questo modo, la società diventa proprietaria di se stessa. O meglio gli azionisti di controllo diventano un po’ più azionisti di controllo in danno degli azionisti di minoranza, che vedono il proprio diritto ai dividendi decurtato di quanto necessario all’acquisto delle azioni proprie. Normalmente, le azioni proprie servono come antidoto a scalate ostili: fanno parte del patrimonio sociale e in caso di una scalata si può immaginare che siano vendute solo se il gruppo di controllo della Società vede di buon occhio il potenziale acquirente.
Con questa modifica dell’art. 2357, c.c., il limite al possesso delle azioni proprie nelle società quotate passa dal 10%, che non è poco, al 20%, che è moltissimo, soprattutto in tempi di corsi borsistici ai minimi storici e di bilanci non altrettanto penalizzati dalla congiuntura.
In altre parole, il Governo, in una disposizione intitolata ai controlli fiscali, ha introdotto una formidabile norma a difesa di coloro che attualmente hanno il controllo di una società quotata.
Con un inevitabile danno alla democraticità del mercato, che invece vorrebbe tutte le società che decidono di aprirsi agli investimenti egualmente contendibili da parte di chiunque ne voglia assumere il controllo.
Anche se questo qualcuno si chiama Murdoch e la società si chiama Mediaset.
Ma queste sono chiacchere da professori di diritto costituzionale.