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Il Semestre europeo, il barbiere e la domenica pandemica

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05/04/2020

La domenica comincia con la barba del sabato

Ci si abitua a queste strade abitate dalle ambulanze e dalle passeggiate dei cani, a questo silenzio irreale spezzato da qualche nota di pianoforte in case senza serenità, ad ascoltare il quartetto alla fine dei tempi al posto delle nozze di Figaro.

E’ una sorta di lunga domenica e la domenica di chi lavorava la terra, quando lavorare la terra era duro lavoro di braccia che addomesticavano cose d’altri e non passatempo di orti pensili, iniziava con la barba del sabato.

Con la coda dal barbiere del paese, l’attesa del pennello e del borotalco, il piacere della lama come una carezza.

Ci si preparava alla domenica.

Non a questa lunga domenica, nessuno ha avuto il tempo per prepararsi a questa lunghissima domenica, nessuno sa neppure quando finirà una domenica in cui le messe sono proibite, soprattutto nessuno sapeva che il giorno dopo sarebbe stata domenica e così il giorno dopo, fino a un quando che è impossibile da prevedere perché il virus non rallenta, il silenzio è un silenzio di ambulanze che lo violentano come se fosse notte, come se fosse sempre domenica.

Eppure la domenica è sempre l’occasione per ripensare a se stessi, alla propria vita, al proprio affannarsi, e questo vale anche per questa strana domenica delle salme e per questa nostra repubblica prostrata dal silenzio delle strade e di chi la governa guardando al futuro con il cannocchiale della paura, facendo della precauzione un principio di governo dell’economia.

E’ il momento di ripensare alla nostra idea di sviluppo e di coesione nel quadro di una governance condivisa non solo dell’economia, fa paura un governo che pensa all’indebitamento come strumento di sviluppo senza individuare le missioni e i programmi che dovranno guidare il rilancio dell’economia, che pensa all’innovazione senza individuare che cosa ha bisogno di essere innovato, che non si accorge che la proposta tedesca di sospendere per un anno il cd. semestre europeo non è un favore ai paesi più colpiti. E’ il modo per evitare alle economie più forti della zona Euro di condividere i propri bilanci, di mostrare come in quei paesi la sovranità nazionale si muoverà egoisticamente per rilanciare la propria economia consentendo alle proprie imprese di aggredire come lanzichenecchi affamati i membri più impoveriti del mercato comune, quelli che saranno costretti a vendere i propri figli più piccoli per dare un futuro ai figli più grandi.

Aprile, nel semestre europeo, è il mese in cui tutti i paesi della zona Euro devono comunicare alla Commissione Europea i propri programma di stabilità e di riforma e mai come in questo aprile di morte e pandemia è stato necessario avere contezza reciproca di quanto ciascuno può fare per venire incontro alle esigenze del proprio paese, mai è stato necessario come in questo aprile dimostrare di essere capaci di pensare insieme al futuro e questo non è un problema di obbligazioni sovrane e di MES, è il punto di partenza per capire quali strumenti attivare e come attivarli.

Rinunciare a questo meccanismo, pensare che questa rinuncia sia un dono è miopia, perché di domenica si pensa al lunedì, si prepara la settimana, si organizza l’agenda e si mettono in ordine le scadenze prima che si troppo tardi per non essere travolti dalla urgenza di una telefonata che rimette in discussione tutto quello che si era pensato di fare.

Spaventa un Parlamento che resta “aperto” solo per gli affari urgenti e che in questi affari urgenti ricomprende unicamente le interrogazioni a risposta immediata, che sono poco più di un rito quando le domande sono allegate all’ordine del giorno di seduta, e la conversione dei decreti legge.

Spaventa una Giunta per il regolamento che si preoccupa di organizzare i lavori dell’Assemblea e delle Commissioni rispettando il distanziamento sociale, piuttosto che cercare il modo di affrontare e discutere in termini costruttivi e di solidarietà nazionale la Decisione di Economia e Finanza, che dovrebbe essere adottata entro il mese di aprile e che, forse, non sembra nemmeno all’ordine del giorno della Conferenza dei Capigruppo.

In questo momento, dobbiamo pensare al futuro della repubblica, ripensare il nostro modello di sviluppo, approfittare di questa domenica e dei fondi che potrebbero essere stanziati per il futuro perché la crisi dell’economia possa essere superata cambiando un modello di sviluppo che ci ha portati alla pandemia. Solo per fare un esempio: quando potranno essere aperti di nuovo ristoranti e alberghi? Quando potranno tornare i turisti? Non lo sappiamo, ma forse sappiamo che il turismo delle città d’arte saccheggiate da stranieri in fila per una schiacciata consuma un patrimonio inestimabile senza dare niente in cambio. E’ un padre che vende i propri figli per un fiasco di vino all’osteria del paese.

Sono queste le cose che dovremmo pensare in questa domenica delle palme senza messe e in questa settimana santa senza vie crucis.

Clockdown

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04/04/2020

La pandemia ferma gli orologi

L’immagine di questi giorni è un orologio automatico che si ferma.

Non perché è guasto, ma perché passa il suo tempo sulla scrivania, a segnare un tempo che passa nella immobilità del distanziamento sociale.

Gli orologi automatici hanno bisogno di muoversi. Il tempo ha bisogno di muoversi. La misura del tempo è misura di un movimento.

Quando il tempo è un bollettino della protezione civile, gli orologi si fermano e con loro tutte le cose che non saranno più come prima.

30 marzo 1934

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
30/03/2020

Il 30 marzo 1934 non è un giorno importante nella storia di Italia, furono proclamati i risultati delle elezioni con cui il popolo italiano manifestò la propria adesione al fascismo, il Corriere della Sera ricorda la relazione del Presidente della Banca di Italia, qualche arresto di topi di appartamento, la messa del Giovedì santo dinanzi a Pio XI, la Fiorentina aveva pareggiato con l’Alessandria nell’anticipo di campionato necessario per festeggiare la Pasqua.

C’era tramontana a Firenze ed era venerdì santo: la Pasqua veniva presto in quell’anno.

A Firenze, lo stadio si chiamava Berta.

L’unica notizia di quel giorno, però, per me, sono i tuoi occhi, il loro azzurro tinto di grigio, quel colore che sapeva di pace e di quiete, che non aveva mai smesso di essere ingenuo, neppure quando si sono spenti.

Sono contento che tu non abbia vissuto questa peste, che tu non sia stata chiusa in casa da questa peste, che tu non abbia avuto paura di questo morbo che toglie il fiato e soffoca i sogni, che chiude i bambini in casa e si diffonde nel silenzio delle strade vuote.

Sono contento perché gli occhi di una madre segnano la vita, come quelli dei figli. Si vive per quello che vorremmo quegli occhi vedessero, per fargli vedere solo quello che vorrebbero vedere e io, mamma, questo mondo silenzioso non vorrei che tu lo vedessi, perché ti ricorderebbe tanto il mondo della guerra che i tuoi genitori non ti poterono evitare e che si intravede nelle cronache di quel giornale.

Tornerà come prima?

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
28/03/2020

Nemmeno in tempo di guerra

Anziani in fila per il pane. La mascherina calcata sul viso. Occhi soddisfatti: non sono più i soli a essere chiusi in casa. Tutti vivono come loro.

Non c’è festa in chi esce, c’è quella mestizia dell’ora d’aria in carcere, quando il passeggiare è consapevolezza di ciò che è proibito dal peso delle proprie colpe.

La casa è un modo diverso di lavorare, lontano dalle cose e dalle persone, le lezioni sono parole a un monitor e c’è una lentezza terribile in tutto.

Ci si parla a distanza, più di un metro, senza sfiorarsi, senza poter sussurrare e c’è vertigine, attesa, timore, palpabile e pesante.

Molti sono travisati, non mostrano il viso, si nascondono nelle loro mascherine, con la gioia di un carnevale di peste.

Niente tornerà come prima e non riavremo mai più quello che questa peste ci ha portato via mentre ci ammaleremo tutti di quello che ci ha donato: il senso della distanza e del travisamento, il timore di chi abbiamo amato e abbiamo perduto di travisamento e distanza.

Il dono della peste è il vuoto pubblico e sapere che si può vivere nel vuoto è non poterne più fare a meno.

Anche quando il caldo ci avrà restituito le piazze.

Va bene. Va bene così.

La tela di Penelope

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
11/01/2020

Penelope è una reggia vuota del suo re

Sono quelle stanze occupate da mille persone

Penelope sa benissimo come si riconosce un re

Un re pone il suo onore nel meritare fiducia. Ha il coraggio di esserci quando si ha bisogno di lui

Un re marinaio sa condurre la sua nave verso il porto, sa che navigare è riportare tutti i marinai che hanno messo la loro vita nelle sue mani alle loro case e lui per ultimo

Ulisse sapeva navigare, aveva il coraggio delle colonne d’Ercole, il coraggio di andare oltre il confine del mare e, soprattutto, di tenere la rotta quando il mare ribolle di sirene che chiedono solo di dimenticare una direzione, abbandonare la bussola, lasciarsi trasportare dalle onde, scomparire

Ulisse sapeva come si tradisce, sapeva usare l’astuzia dell’attesa, trasformare l’intelligenza in un tranello e in un inganno, perché un re vince le guerre, conquista il bottino di sangue che è la schiavitù di chi si è lasciato ingannare, di chi ha voluto l’inganno pur di finire una guerra, la morte per non aspettare la vita che si consuma dentro un assedio

Penelope aspetta il suo re nelle stanze del castello, finisce i suoi occhi al telaio, tesse come se non ci fosse nessun assedio, come se la nave di Ulisse non si incrociasse nel deserto mediterraneo con i lutti di Enea, non naufragasse nella ricerca di acqua, non soccombesse alla sordità dei banchetti di Didone

Si prostituisce all’assenza perché chi occupa la reggia non è un re ma sa offrire lo spazio di una gioia nel vuoto incavo della sua vagina secca di sale e lontane tempeste. Ama quei pretendenti. Di ognuno ama qualcosa. Di tutti ama il destino: morire di freccia, per mano di Re, morire perché la gioia di una regina deve soccombere al ritorno del suo signore

Nemmeno Omero, però, ha scritto cosa hanno fatto Ulisse e Penelope dopo quella strage danzante, dopo quelle frecce che hanno trafitto il cuore di coloro che avevano amato Penelope, di coloro che Penelope non aveva mai amato e ai quali aveva prostituito il suo bisogno di essere sazia e sola, di essere regina e vedova di un niente che sbiadiva il ricordo della sua anima

Non lo ha scritto perché non c’era più niente da raccontare. Perché Ulisse non ha solo trafitto il cuore di chi era colpevole di non essere amato. Perché alla fine Ulisse non poteva restare a Itaca, Itaca non poteva contenere i mari che lui portava dentro

Ulisse non è tornato a Itaca per restarci, è tornato perché aveva bisogno di Penelope per completare il suo viaggio. Per partire verso un dove che non conosce né ritorni né approdi.

 

Parole cancellate

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08/01/2020

Solo parole cancellate

dal silenzio religioso

di una prostituta

in viaggio con il suo scudiero

 

L’inverno degli uomini e l’ultima rosa dell’anno

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
01/01/2020

L’inverno degli uomini assomiglia a quello delle piante

Ci si spoglia progressivamente di ogni emozione e sentimento

Fino a restare nudi

Il quieto sole della notte e la gioia immobile delle stelle intraviste da un letto che non è più nemmeno ricordi o rimpianti

L’egoismo del sangue che continua a scorrere anche se non bastano le coperte per scaldare un cuore vuoto

Eppure solitarie rose spuntano nel roseto ormai spoglio

Solitarie e coraggiose perché le rose nascono per fiorire

Le rose

Non gli uomini

Non questo uomo che ho paura di ritrovare nella parte più profonda dei miei occhi.

Il segreto del bosco magico

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
26/12/2019

Una donna, nera come la notte, indossa un serpente come una condanna nel giardino dell’Eden

Fiori

Uccelli magici

Il bosco magico

La sua notte è il suo serpente,

Una collana, un collare

Non tutte le donne conoscono la parte più oscura e vera del loro essere

Ancora meno sanno come coniugare quella notte al giorno

Sanno riempire il giorno con la forza della notte

Un serpente che non possono dimenticare e che è l’unico abito con cui si può entrare nel bosco magico.

La guerra degli scarafaggi

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
18/12/2019

Mi ritrovo solo con la mia nausea

Solo di una solitudine di scarafaggio

Spaventato dello scarafaggio che è davanti a me, della sua forza

La forza degli scarafaggi è la solitudine spaventata di chi li osserva

Sa di doverli prendere in mano e lo scarafaggio sa di fargli schifo come solo uno scarafaggio

Vive di questo schifo, ama questo schifo, perché gli scarafaggi fanno schifo sapendo di fare schifo, amando lo schifo che fanno

Gli scarafaggi vincono le guerre

Sono brutti e schifosi ma vincono le guerre

Approfittandosi del fatto che si amano come solo uno scarafaggio si può amare

Penso tutto questo mentre osservo lo scarafaggio e suo padre

Che mi odiano, come solo loro sanno odiare.

Perché vogliono che anche io diventi uno scarafaggio

Penso a Kafka

Senza conforto.

Parole che sfuggono

0 Comments/ in profstanco / by Gian Luca Conti
15/12/2019

Parole che sfuggono dalla bocca

Briciole di pensieri e ricordi sdentati

Tempo perso cercarle ancora

Tempo perso raccogliere le tessere di un mosaico consunto

delle memorie che si diramano in ferite di fuoco liquido

Non c’era speranza quando c’era un futuro

Non c’è speranza quando l’unico futuro è l’attesa di dimenticare il passato.

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