Imparare il sapore delle lacrime
Simenon è scrittore di tremenda e folle agilità narrativa, la sua capacità di scrivere e di narrare ha un che di osceno per la rapidità con cui una somma di pensieri si distende sulla pagina e diventa immagini: dipinge acquerelli con la profondità di una gymnopedie.
Le campane di Bicêtre sono uno dei suoi romanzi che preferisco: è il Simenon dell’autobiografia, quello che ha saputo scrivere alla madre mentre morivano entrambi. Lontano da Maigret.
La lucidità, questa volta, è l’esperienza dell’ospedale, del tempo dell’ospedale per un uomo che vive rubando i minuti all’orologio e che improvvisamente scopre che l’unico tempo vero è quello battuto da una campana, è il tempo di una persona che riconosce le ore dal battere di una campana, che si può permettere il lusso di riconoscere il tempo solo quando la campana detta il ritmo delle preghiere.
L’unico tempo che resta è quello regalato, dice questo romanzo. O meglio direbbe se il suo autore avesse avuto l’arroganza delle morali.
Finisce nell’amarezza delle dimissioni che riportano il protagonista alla vita di sempre, lontano da Bicêtre, la malattia di un uomo di successo è l’ennesima occasione per salutare l’anima abbracciando l’ambizione.
Ho cercato a lungo questo libro per farne dono a un amico dopo il dolore della sua malattia, una malattia improvvisa e da cui non si potrebbe fare ritorno, uno dei tanti lunghi additi un tempo in cui la medicina non serve sempre a curare, talvolta si limita ad avvertire che è arrivato il momento di fare ordine sulla scrivania.
Non ho avuto la forza di dirgli nulla, solo di lasciare una copia di questo libro nella casa che l’ha visto ritornare. Non c’è nulla da dire se non si può fare niente perché il coraggio di tornare nel letto di casa è tutto quando si è partiti sapendo di poter non tornare, quando si è imparato il sapore delle lacrime.
Le lacrime a cinquant’anni hanno un sapore diverso, mi dice, mentre lo saluto perché la mia timidezza è un orologio da guardare.